Se avessi avuto la possibilità di decidere le manifestazioni oggi in programma le avrei collocate più che in uno spazio diverso in un tempo diverso. Credo che la notte più che il giorno rappresenti meglio il nostro oscuro presente. L’invito che oggi, chiudendo gli occhi è quello di cercare quella luna capace di ispirare un futuro diverso per i nostri figli.
Il 05.10.2002 Pietro Ingrao pronunciò questo discorso durante la cerimonia per la laurea ad honorem conferitagli ieri dall’Università di Barcellona.
Vi prego rileggetelo.
E c’è qualcosa che mi spaventa di più. C’è il fatto amaro che nei nostri Paesi il senso comune non si allarma: non trema più. Dobbiamo dirla questa verità amara. Sfogliate i libri, porgete l’orecchio alle parole dei governanti. Scorrete le pagine dei dibattiti parlamentari. Troverete che è sparita la parola “disarmo”. Non l’usa più nessuno. È in questo senso largo e agghiacciante che io parlo di una “normalizzazione” della guerra. S’è liquefatto lo spavento, l’orrore che scosse la mia generazione e – in quel maggio del 1945 – ci fece giurare che mai più sarebbe tornato il massacro. Come mentivamo! Guardate all’oggi: guardate come si discute ora, in questi giorni, apertamente di un attacco all’Irak, e si invoca la guerra preventiva. E chi ne parla non è un politico scervellato o un gazziettiere fanfarone. La propone oggi al mondo – come compito ineludibile ed urgente – il Presidente degli Stati Uniti, capo della potenza più grande della terra. E ciò avviene senza troppo scandalo. Non si riuniscono in ansia i Parlamenti. Non suonano di spavento le campane delle chiese. Né i sindacati preannunciano scioperi. Appunto: è diventata normale, invocata dal Paese che si considera guida del mondo, la guerra di prevenzione. Su che si è fondata questa rivalutazione e normalizzazione della guerra e perché il pacifismo oggi è una scelta di ristrette minoranze? Io voglio solo alludere a una spiegazione che – per comodità e brevità – chiamerò “tecnica”. In verità non è nelle mie competenze il vaglio delle grandi innovazioni tecnologiche e dei nuovi saperi che hanno dilatato e rivoluzionato i sistemi d’arma, la trama dei conflitti, la combinazione delle strategie fra terra, mare e cielo. Ho però in mente i mutamenti forti avvenuti nel rapporto politico-sociale tra la vita dell’uomo semplice e delle masse di civili e ciò che è diventata la guerra, a questo passaggio di secolo. Mi sembra indubbio che negli ultimi decenni si sia venuta sviluppando (o ritornando?) la connotazione “specialistica” della pratica di guerra. Sembra scomparsa o impallidita quella connotazione totalizzante che essa assunse clamorosamente dall’inizio del Novecento: quel cammino che a partire dal conflitto mondiale del 1914 vide schierati sui fronti di vari continenti milioni di uomini: per anni ed anni, e in una condizione umana radicalmente diversa dal vivere civile: quella guerra di massa nel fango delle trincee che presto venne via via dilatandosi fino a coinvolgere l’insieme delle nazioni, le città lontanissime dal fronte, la vita degli inermi, le donne e i fanciulli. Insomma, la guerra di massa. La guerra mondiale, come la chiamammo. Oggi i compiti prevalenti, il nucleo centrale dell’azione bellica sembrano di nuovo affidati a soldati di mestiere: a cittadini e a cittadine che accettano o addirittura chiedono di essere chiamati a praticare la scienza della guerra: con le sue tecnologie raffinate e con i suoi rischi di morte. L’uccidere collettivo in nome del potere pubblico torna ad essere compito nobile ed ambito: sotto l’aspetto delle retribuzioni, del rango sociale, del riconoscimento pubblico. E l’esistenza di questi corpi specializzati nell’uccidere, in nome della comunità pubblica, appare come una nuova divisione di compiti, che permette ai civili, garantiti da quella protezione e sapienza specialistica, di dedicarsi – diciamo così – serenamente ai compiti di pace. Dunque il soldato Ryan – ricordate il film famoso? – può starsene tranquillamente nella sua città, perché un adeguato “esercito di mestiere” si accolla sulle spalle il cruento e “nuovamente” nobile mestiere della guerra. Si potrebbe perciò pensare che questa rivalutazione delle armi e il suo rilancio come nerbo e risorsa centrale della politica poggino sull’operazione di sgravio delle masse dei civili, e sull’allontanarsi – dal loro orizzonte – del pericolo di un ritorno delle prove terribili vissute in due tragiche guerre mondiali (e altre ancora). E si può anche pensare che Bin Laden e il massacro feroce delle Due Torri – consapevolmente e con una sconvolgente audacia – abbiano voluto e tentato di rigettare nella fornace della guerra di massa “i civili” del nemico americano: per seminare nuovamente nel loro animo lo spavento della guerra, la paura di massa dei massacri di massa. Fu ciò quella sfida feroce? Non lo so. So che gli eventi terribili a cui ho fatto cenno e l’incalzare dei fatti intorno a noi riaprono domande aspre sul senso e sulle forme che assume la politica nello schiudersi del Terzo Millennio e nell’età della globalizzazione: un età in cui il capitalismo – disaggregati su scala del mondo i momenti del produrre e del consumare – è riuscito a scardinare e a frantumare le nuove soggettività sociali, che nel corso del tragico Novecento avevano messo in discussione i suoi poteri ed i suoi parametri. E però – con sorpresa di molti – da questa vittoria non sono sgorgate la primavera del Terzo Millennio e la calma di una stagione sicura delle sue intime regole. Torna ancora sul trono con tracotanza (ma anche con un dubbio interiore) la scienza dell’uccidere, e torna proprio in quel Vertice del mondo occidentale dove – dopo la tragica sconfitta dei “rossi” – sembrava dovesse fiorire una calma saggezza inconfutabile. Allora, in quel 1936, il fragore delle armi sulla vostra terra e le macerie di “Guernica” cambiarono la mia esistenza, mi trascinarono nel conflitto. Non pensavo, non avrei mai pensato che avendo avuto la fortuna di vivere quasi per un secolo alla fine sarebbe tornata quella domanda elementare sul diritto e sulle forme dell’uccidere collettivo i propri simili, e che quest’arte venisse oggi presentata addirittura come strumento di “educazione” del mondo: di saggia “prevenzione”.