a cura di Ugo Balzametti
La via crucis del nuovo PNRR
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è stato lo strumento che l’Europa si è dato per risollevare le economie del vecchio continente dopo la pandemia scoppiata nel 2021. E’ stato, fin dall’inizio, un lavoro complesso e impegnativo, con l’obiettivo di riformare le fondamenta italiana, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dalla salute all’inclusione.
L’Europa nel giugno del 2021, nel deliberare Next Generation EU ha scelto di investire sull’Italia 191 miliardi di euro. Il nostro Paese ha aggiunto altri 30 miliardi che avrebbero dovuto dare la scossa necessaria per riprendere la via dello sviluppo.
“E’ un’occasione storica” ammoniva il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il rischio concreto, però, è che diventi un’occasione persa.
La nascita, gli errori e le difficoltà oggettive nel redigere il Piano hanno coinvolto tre governi del nostro Paese ed hanno messo a nudo tutti i limiti e i ritardi della classe politica e delle pubbliche amministrazioni centrali e territoriali.
I finanziamenti hanno rischiato di bloccarsi poiché il governo Meloni non riusciva a seguire le cadenze stabilite dall’Europa. Il cronoprogramma è stato rispettato fino alla fine del governo Draghi, tanto che l’EU ha erogato le rate stabilite (pre-finanziamento, prima e seconda rata per un importo di 67 miliardi di euro).
Tuttavia i primi segnali di difficoltà li abbiamo registrati già con il governo Draghi che ha dovuto ridimensionare le prime spese dei finanziamenti arrivati dall’EU, da 40 miliardi di euro a 23, ovvero il 12% del totale degli investimenti per il 2026.
C’è da sottolineare che il governo Meloni, in carica ormai da più di un anno, non ha fatto registrare nessun cambio di passo nell’attuazione del Piano. Nonostante ciò l’attuale esecutivo continua a negare una qualche responsabilità sui ritardi, scaricandoli sistematicamente sugli altri governi.
Da subito si è aperta la sfida contro le strutturali debolezze dell’Italia ben riflesse nel PNRR: frammentazione degli obiettivi, scarsa capacità di spesa, una macchina burocratica indebolita da decenni di blocco del turn over con quadri dirigenti sempre più anziani e numeri ridotti all’osso
Il PNRR è apparso agli occhi degli esperti più come una sommatoria di interventi che come una vera propria agenda di sviluppo. Si è puntato su strumenti già esistenti senza inserirli in una cornice progettuale capace di mettere in campo modalità d’intervento che prevedessero regole all’erogazione di incentivi elargiti a pioggia alle imprese, che garantissero i livelli occupazionali e la qualità di lavoro.
Il nostro è un Paese disattento ai grandi nodi che lo affliggono, primo fra tutti le disuguaglianze tra classi sociali, tra Nord e Sud, di genere e di generazione. Si continuano ad ignorare le scelte strutturali, a cominciare da quella sul debito pubblico, di cui il Paese ha disperatamente bisogno.
L’annuncio che con il PNRR sarebbero stati assegnati all’Italia tanti finanziamenti è stato vissuto dai peones della politica come un dono caduto dal cielo che rendeva possibile tutto, tanto che nella campagna elettorale del 22 settembre 2022 le liste di proposte e di promesse le più strampalate sono state infinite.
Al contrario un modo serio e concreto per rilanciare il Paese sarebbe stato quello di far crescere il tasso di sviluppo al fine di diminuire il rapporto debito/PIL, e soprattutto contribuire a ridurre le disuguaglianze socio-economiche tra le diverse aree del Paese, obbiettivo primario del PNRR.
Gli elementi problematici sono stati sottovalutati in quanto le prime due rate sono state erogate senza troppi problemi. Le stesse due relazioni annuali che i governi Conte e Draghi hanno presentato in Parlamento, come prescrive il regolamento della Commissione EU per il PNRR, non hanno sollevato particolari preoccupazioni, anzi veniva espressa molta euforia e un cauto ottimismo.
Certo non si poteva prevedere quello che sarebbe successo nel mondo negli ultimi due anni: la guerra in Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, il conflitto in Medio Oriente.
Quando si è passati alla definizione dei finanziamenti, la parte più difficile del Piano, il governo Meloni si è trovato completamente impreparato. Ricordiamo tutte la tormentata vicenda per acquisire la terza rata.
Uno dei problemi strutturali, che le risorse del PNRR non potevano risolvere, è stata la cronica lentezza della P.A nella realizzazione dei progetti. Il Piano si è avviato come se in Italia le cose funzionassero bene, non tenendo conto del ritardo con cui i ministeri hanno da sempre gestito i bandi, della scarsa preparazione di chi lavora per gli Enti locali, della tendenza tipica di produrre norme e circolari che alla fine rallentano tutto il processo.
Ma il dato più eclatante ce lo ha consegnato ancora una volta la Corte dei Conti: dal 1° gennaio 2023 al 4 maggio dello scorso anno, le pubbliche amministrazioni italiane hanno dichiarato di aver speso solo 1,2 miliardi di euro per l’inclusione, lo 0,5% per la salute e il 4.1% per la scuola. Per rimediare dovremmo spendere 40,90 miliardi annui nel biennio 2024-2026, ma non ci crede nessuno. Tanto meno il governo.
La pubblicazione di quel documento ha aperto un vaso di Pandora. Il Piano dei “sogni” pensato da Draghi si è trasformato in un Progetto da incubo. Si è aperto un duro contezioso con la Corte, cui hanno fatto seguito una ridda di dichiarazioni della maggioranza di governo, sulla convenienza a continuare a gestire il PNRR o, quanto meno, sulla necessità di riscriverlo. Qualcuno però, si è dimenticato che la Lega e Forza Italia quel Piano l’hanno sottoscritto e approvato.
Comunque la risposta del governo non si è fatta attendere risolvendo il problema alla radice: sono stati eliminati i controlli preventivi della Corte, organo costituzionale, che potrà operare solo ex post.
Le criticità più significative hanno riguardato le dimensioni del Piano e quindi la difficoltà, in pochi mesi, a definire un intervento serio e ben ponderato. Ci si è trovati di fronte a obiettivi in alcuni casi irrealistici. La situazione assurda è stata quella di avere tanti soldi ma non sapere come spenderli. Ulteriore elemento critico, quello che molti investimenti pubblici si sono scontrati con un limite insormontabile relativo alla capacità di spesa delle amministrazioni. (Tito Boeri e Roberto Perrotti – PNRR La grande abbuffata)
Altro aspetto che da molti addetti ai lavori e dai cittadini non è stato considerato è che tali fondi non sono un regalo della Commissione EU. Si tratta sempre di debito, anche se a condizioni più favorevoli di quelli di mercato, che dovrà essere restituito.
Ci siamo indebitati per ben 123 miliardi, più 69 miliardi di sovvenzioni e altri 45 di fondi italiani per un totale di 237 miliardi da spendere entro il 2026.
La destra al potere
La presidente Meloni, nuovo inquilino di Palazzo Chigi, dopo il voto del settembre 2022, non vedeva l’ora di entrare “nella stanza dei bottoni” ma ha avuto la brutta sorpresa che i bottoni erano già stati tutti premuti dai tecnici di Draghi.
Non si è persa d’animo e immediatamente ha dato segnali concreti di quale fosse il primo obiettivo del suo mandato: l’occupazione del potere. Nel giro di sei mesi in modo arrogante e decisionista ha cambiato tutti i vertici delle aziende e degli Enti pubblici.
Ancora oggi questa “fame” non è soddisfatta e dove c’è una “poltrona da occupare” la destra, anche a costo di calpestare pesantemente le regole, la occupa. Non ha fatto e non fa prigionieri.
Nello stesso tempo l’on Meloni ha accentrato tutte le deleghe del PNRR a Palazzo Chigi, nelle mani del fedelissimo on. Fitto. Per il nuovo governo era prioritario riportare il Piano nell’alveo che per esso era quello giusto, cioè l’accentramento nelle mani del potere, annacquando o cancellando le caute aperture di Draghi al sociale e alle istituzioni.
E’ stata evidente fin da subito l’insofferenza della Presidente rispetto al PNRR originario, che non era il suo, lo ha dovuto subire, con la preoccupazione, nello stesso tempo, di doversi guardare le spalle da un ipotetico atteggiamento ostile di Bruxelles.
L’onorevole Meloni vive in una costante dimensione complottista, con un atteggiamento sempre sospettoso, circondata da una corte ristrettissima di fedeli cortigiani. Lei e molti suoi ministri hanno manifestato in più occasioni, in modo sempre più palese e scomposto, la loro insofferenza verso qualsiasi forma di controllo, anche quello di organi Costituzionali ( Corte dei Conti) o giudizio critico sollevato sul proprio operato.
Questa notazione non può essere catalogata come semplice “problema caratteriale” della Meloni. Si pone un tema delicato di tutela della democrazia che la nostra Costituzione, dal dopo guerra ad oggi, ha sempre garantito individuando un sistema di pesi e contrappesi esercitato da organismi autonomi ed indipendenti.
Il nuovo PNRR
Il nuovo PNRR, modificato e approvato con decisione del Consiglio EU l’8 dicembre 2023, è aumentato a 194,4 miliardi, ha previsto 66 riforme, sette in più rispetto al piano originario e 150 investimenti. Rispetto alla dotazione iniziale di 191,5 miliardi, l’aumento è di 2,76 miliardi come contributi a fondo perduto per la realizzazione del Repower.
Il governo Meloni non ha realizzato quel cambio di passo che molti auspicavano, non è riuscito a portare a termine i molti impegni assunti con la Commissione europea e le rate del PNRR hanno continuato a slittare di mese in mese.
Per garantire una inversione di marcia nell’economia, auspicato dalla stessa Commissione EU, non sono sufficienti ulteriori risorse, ma serve un nuovo indirizzo dell’azione pubblica, servono una regia e un cambiamento nelle istituzioni.
Se l’esecutivo si assumesse la responsabilità politica di gestire il Piano sulla base di una strategia condivisa insieme alle imprese, al sindacato, ai lavoratori, alla società civile si creerebbero le condizioni per mettere a fuoco una chiara visione di rilancio del sistema produttivo, un’idea di come l’Italia si debba collocare nel contesto globale, di come possa creare posti di lavoro di qualità.
Temi molto lontani da quelli del governo Meloni. Il primo segnale non è tanto riferito ai ritardi o alle lentezze burocratiche, che comunque esistono come problema, quanto al disegno politico entro il quale gli investimenti e progetti si sarebbero dovuti realizzare: meno servizi pubblici, più risorse ai privati.
Il disegno si è subito palesato in modo molto chiaro rivolto, in particolare, a consolidare il sostegno alle imprese grazie alla concessione di incentivi a pioggia e di finanziare grandi progetti in campo energetico coinvolgendo anche le partecipate di Stato.
Tanti soldi alle imprese ma senza alcuna strategia di politica industriale, senza alcun indirizzo per modificare, ampliare la struttura produttiva italiana.
Tutto questo a scapito degli investimenti dei grandi Comuni italiani, guarda caso governati in maggioranza dal centro sinistra, in particolare quelli destinati alle zone di periferia e al degrado urbano..
La proposta di revisione ha escluso dal PNRR circa un terzo degli interventi che prevedevano come soggetto attuatore i Comuni, che hanno ben compreso le straordinarie opportunità di investimento offerte dal Piano.
I Comuni e le città metropolitane hanno svolto e svolgono un ruolo centrale nella realizzazione dei progetti del PNRR, come riconosciuto anche dalla premier Meloni all’assemblea pubblica dell’Anci. A loro è affidata la gestione diretta di un’ingente quantità di risorse pari a circa 40 miliardi, di cui 36,6 già assegnati. In questa circostanza è emersa tutta l’ipocrisia della Meloni.
Gli Enti territoriali sono soggetti attuatori di oltre il 53% dei progetti ovvero 53.665 proposte. Il governo ha valutato di stralciare nove investimenti per 16 miliardi complessivi di cui 12,3 miliardi già assegnati.
Come riportato dalla Corte dei Conti nell’ultima relazione sullo stato di attuazione del PNRR del marzo scorso, il livello elevato di partecipazione alle procedure di selezione e il loro esito favorevole evidenzia tre aspetti:
-i Comuni hanno accettato la sfida del PNRR e hanno colto la portata straordinaria delle opportunità di investimento;
– nonostante la complessità delle procedure e le carenze strutturali di personale, gli Enti territoriali hanno dimostrato capacità tecniche e organizzative soddisfacenti;
-l’ammissione a finanziamento di progetti appartenenti alla quasi totalità dei Comuni italiani ha assicurato una capillare diffusione del PNRR, permettendo di soddisfare una condizione fondamentale del Next Generation EU , ossia la coesione sociale e il pieno coinvolgimento di tutto il territorio nazionale.
Nonostante che anche la Relazione del governo esprimesse valutazioni positive sul ruolo svolto dai Comuni, l’on. Fitto ha ribadito “ il rischio che non fosse rispettata la data del 30 giugno 2026 entro la quale i progetti devono essere collaudati. Ci sono 67 miliardi di progetti in essere che corrono il rischio di non raggiungere i risultati”
I sindaci hanno espresso tutto il loro disaccordo “non solo siamo pronti, ma abbiamo già aperto centinaia di cantieri ed ora rischiamo di non concludere i lavori perché non ci sono soldi”.
Ma l’impegno dei Comuni, per renderlo concreto, avrebbe la necessità anche di un piano di assunzioni di personale qualificato, una revisione dei meccanismi di finanziamento affinchè si possa assicurare una maggiore equità territoriale, una politica urbana che renda le città meno succubi del controllo politico delle Regioni.
Inoltre sarebbe indispensabile e urgente sostenere la capacità di realizzazione degli appalti dei Comuni, in particolare al Sud, ben più di quanto fatto finora con alcune misure di sostegno messe in atto prima dal governo Draghi e poi dal governo Meloni: utili ma insufficienti. Il rischio vero è di trovarci un Paese più indebitato e più diviso.
Dalla quantità e dalla qualità dei servizi erogati dalle Amministrazioni Comunali dipende la possibilità di godere dei diritti di cittadinanza previsti dalla Costituzione.
Tuttavia il ministro della coesione sociale ha continuato a manifestare il suo “accanimento terapeutico” verso i Comuni, rendendo sempre più evidente che il taglio dei fondi rispondesse più ad una logica politica che tecnica. Tutto questo a vantaggio dell’apparato produttivo delle regioni più ricche del Nord.
La Next Generation è un’occasione per tornare ad una stagione di investimenti pubblici dopo la fallimentare ideologia europea segnata dall’austerità. In questo ambito la tentazione della Meloni, nemmeno tanto nascosta, è stata quella di smantellare progressivamente o cancellare gli interventi pubblici con la scusa dei ritardi e assorbire in questo modo le richieste delle imprese private.
Dare attuazione al PNRR non significa solo deliberare le “riforme” o spendere le risorse per gli investimenti, ma usare questo processo per innescare una correzione profonda rispetto alle opzioni neo liberiste fatte nei primi vent’anni di questo secolo.
Il governo ha deciso di tagliare integralmente 15,8 miliardi di euro di cui 13 destinati dal Piano alla valorizzazione del territorio e alla efficienza energetica.
In questo contesto è stato gioco facile per il governo intervenire massicciamente sul vecchio Piano :107 misure sono rimaste invariate, ma ben 82 sono state corrette nei milestone/target (traguardo/obiettivo); ad esempio , l’obiettivo sugli asili nido è stato ridotto da 264 mila a 150 mila nuovi posti.
Quasi 6 miliardi di euro di definanziamento hanno riguardato i cosiddetti piccoli interventi dei Comuni, 3,3 miliardi di investimenti riferiti alla rigenerazione urbana, 2,5 miliardi dei piani urbani integrati, 1,2 miliardi per la gestione del rischio alluvioni e del rischio idrogeologico, all’ idrogeno in settori hard-to-abate (decarbonizzare dove è più difficile), 750 milioni ai servizi e infrastrutture sociali di comunità , 300 milioni alla valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. Per un totale di 15,9 miliardi che il governo ha fatto confluire nel capitolo REPowerEU.
Almeno dai dati disponibili, non risulta molto chiara la motivazione del taglio cospicuo dei finanziamenti a questi settori. Anche con il governo della destra si pone il delicato tema di un’informazione tempestiva e trasparente.
Con il nuovo Piano non solo si aggiungono nuovi progetti, a partire da quelle riguardanti il capitolo aggiuntivo del Repower EU, ma anche altri già concordati che sono stati posticipati. Questo comporterà uno sforzo notevole nei prossimi tre anni.
Ancora, vengono esclusi o ridotti i finanziamenti per la riqualificazione degli edifici scolastici; per la sanità, con la riduzione delle Case di Comunità da 1350 a 936; degli Ospedali di Comunità da 400 a 304; delle centrali operative di telemedicina da 600 a 524. Scelte che dimostrano lo scarso interesse dell’esecutivo per il potenziamento della sanità pubblica che, durante la pandemia, era stata oggetto di tante promesse da parte di tutte le forze politiche.
Per ovviare ai ritardi riferiti ad alcuni progetti l’esecutivo ha avanzato alla Commissione EU la richiesta di prorogare alcune scadenze concordate nel PNRR.
Nel dicembre 2023, ad esempio, l’Italia avrebbe dovuto realizzare alcune riforme tra cui la riduzione dei tempi di pagamento della P.A e dell’aggiudicazione degli appalti. Il governo Meloni ha chiesto alla Commissione EU uno slittamento di 15 mesi.
Il rinvio di alcune riforme è stata la cartina di tornasole di quanto siano state strumentali le scelte politiche fatte dal duo Meloni/Fitto, poiché per alcuni progetti, visti i ritardi, hanno deciso di tagliare o ridimensionare i fondi ai Comuni, mentre per altre riforme è stato chiesto lo slittamento, senza dare spiegazioni esaurienti.
Ma soprattutto si sono dimenticati di dire che, a causa degli slittamenti, le prossime due rate (quelle che scadranno a fine 2023 e a giugno 2024) subiranno una riduzione di ben 10,6 miliardi che saranno recuperate soltanto con l’ultima rata del 2026 che verrà incrementata di 12 miliardi di euro, aspetti che preoccupano non poco la Commissione EU rispetto alla capacità del nostro Paese di portare a compimento il PNRR.
Ci saranno conseguentemente carenze di cassa per i conti pubblici rispetto a quanto previsto. Quasi sicuramente sarà necessario ricorrere al mercato o peggio ancora qualcuno potrebbe pensare “di utilizzare i 102 miliardi finora sbloccati dalla commissione Eu per finanziare la spesa corrente”. (Federico Fubini)
PNRR non è quello voluto dalla Meloni
Come detto in precedenza, l’8 dicembre 2023 la Commissione Europea ha dato il suo benestare al PNRR italiano, nello stesso tempo ha apportato molte correzioni, tanto che il nuovo Piano non è quello pensato dalla Destra, non combacia con la proposta di rimodulazione che Palazzo Chigi ha trasmesso il 7 agosto a Bruxelles.
Infatti, fin dall’inizio, sulla proposta di revisione del PNRR sono maturati i dubbi della Commissione EU. La revisione messa a punto dal governo non è sembrata convincere i tecnici di Bruxelles.
L’esultanza e i festeggiamenti dell’on. Meloni e del suo fedelissimo Raffaele Fitto, anche con la compiacenza di tanta carta stampata, hanno dovuto fare i conti con un PNRR che non era quello pensato dalla Destra. Il testo finale è stato sempre presentato come il testo del governo che invece ha dovuto digerire le modifiche pretese da Bruxelles. Ad ogni buon conto l’Italia dovrà continuare a fare i compiti.
I tecnici di Bruxelles, con l’avallo dei loro vertici politici, hanno rimodulato il PNRR italiano e modificato gli equilibri che erano stati pensati dalla Meloni.
E’ il caso dei progetti in capo ai Comuni per i quali erano stati proposti tagli per complessivi 13 miliardi, perché irrealizzabili entro il 30 giugno 2026, la dead line fissata dalle regole del Recovery. La valutazione non è stata accolta.
Le misure che sono uscite completamente dal Piano sono i cosiddetti piccoli interventi dei Comuni (6 miliardi), mentre non sono state tagliate cinque misure che il governo voleva cancellare: gli investimenti in progetti di rigenerazione urbana, Piani urbani integrati, le misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico.
Così alcuni progetti sono stati ripescati. Quasi due dei 3,3 miliardi iniziali resteranno nelle disponibilità dei Sindaci per portare avanti i progetti sulla rigenerazione urbana(3,3miliardi), sulla riqualificazione delle periferie, per ridurre l’emarginazione e il degrado urbano. I Piani urbani integrati (Pui) potranno contare su circa 1 miliardo ( lo stanziamento originario era di 2,5 miliardi ) .
Rispetto allo schema pensato a Roma, è cambiato anche il Repower EU, il capitolo aggiuntivo sulla sicurezza energetica e la transizione green da 19,2 miliardi dove passa gran parte della scommessa della revisione . E’ qui che il governo ha deciso di far confluire i 15,9 miliardi tolti in gran parte ai Comuni, ma anche all’ex Ilva di Taranto.
Alcune voci si asciugano. L’Ufficio parlamentare di bilancio, in una sua memoria sullo stato di attuazione del PNRR, rileva che la richiesta dei previsti definanziamenti per circa 16 miliardi viene ridotta a 8,3 miliardi e le risorse relative al capitolo RePowerEU, che ammontavano a circa 19 miliardi, si riducono agli attuali 11,2 miliardi di euro.
L’Europa ha così ribadito l’esigenza di criteri più stringenti per l’erogazione dei fondi: le risorse dovranno essere assegnate a progetti effettivamente verdi.
E’ opportuno sottolineare che c’è una profonda distanza tra le vecchie regole che hanno portato l’Europa a vent’anni di ristagno economico e l’urgenza di affrontare le molteplici crisi di oggi – militare, ambientale, pandemica- con adeguati strumenti di politica economica.
C’è da rilevare ancora come, negli ultimi mesi, le verifiche tecniche sulla realizzazione del Piano abbiano progressivamente perso rilevanza, lasciando spazio a trattative e negoziati di carattere politico.
E’ logico quindi chiedersi se il governo abbia effettivamente rispettato gli impegni previsti dalle varie scadenze (la terza, la quarta e la quinta) senza sentire l’esigenza di condividere i dati aggiornati a riguardo, ma limitandosi a ribadire, in modo sempre entusiastico, il raggiungimento degli obiettivi, secondo la politica degli annunci.
In questo contesto diventa fondamentale come l’esecutivo interverrà sulla qualità della spesa pubblica, e quindi sulla capacità di ricostruire le relazioni tra i soggetti economici, in particolare tra il sistema della ricerca e mondo produttivo, tra amministrazioni locali e centrali, tra sistema finanziario e piccole imprese, migliorando quelle connessioni oggi indispensabili per lo sviluppo di attività innovative, specie quelle ad alto contenuto di conoscenza.
Il quadro europeo resta in rapida evoluzione e in questo contesto sarebbe urgente una posizione chiara dell’Italia per cambiare radicalmente la direzione delle politiche economiche, fiscali ed industriali che hanno portato al lungo ristagno dei decenni scorsi. Il bel Paese mostra tutte l sue rughe.
A Roma come a Bruxelles il successo delle nuove politiche e del PNRR passa attraverso un cambio di strategia per portare l’economia, italiana ed europea, su una traiettoria di uno sviluppo che sia sostenibile sul piano ambientale e che colmi le disuguaglianze sul piano sociale.
La domanda è d’obbligo: riuscirà questo governo di destra a realizzare questi obiettivi? Siamo molto perplessi!