di Ugo Balzametti
Una strage senza fine
Luca operaio, Luana operaia, Satnam Singh bracciante, Christian muratore, i cinque operai falciati da un treno in corsa mentre stavano lavorando sui binari della stazione di Brandizzo vicino Torino, i cinque operai morti in un cantiere Esselunga a Firenze e così via, in una strage senza fine; solo nei primi tre-quattro mesi del 2024 ha fatto registrare 350 vittime. Sono una piccola parte di un fenomeno inarrestabile, nonostante gli accorati appelli delle istituzioni e delle parti sociali. Il Presidente Mattarella ha parlato di “scandalo intollerabile”.
Del resto anche nel 2023 dalla carta geografica del lavoro italiano è scomparso un paese, una comunità di 1.467 persone. Infatti tante sono state le vittime del lavoro, circa quattro al giorno, secondo l’Osservatorio di Bologna, aperto nel 2008 da Carlo Soricelli, per omaggiare i sette morti nel rogo della Thyssen di Torino.
Ormai non ci sono parole per commentare, deprecare, piangere le morti sul lavoro. Le abbiamo finite perché sono diventate vuote, evanescenti, se ogni giorno ci si presenta la stessa catena di morte, diversa nei nomi delle vittime e delle imprese, ma uguale nel violento riproporsi di questi drammatici eventi che possiamo chiamare veri e propri “omicidi”.
Queste tragedie quotidiane sono concentrate in particolare nel settore edilizio. Secondo i dati degli Ispettori del lavoro, enunciati dalla Ministra Calderone, il 78,48% delle aziende presenta delle irregolarità e più di tre su quattro cantieri non sono a norma.
Credo sia improprio chiamarle morti bianche. Questo termine offende la memoria delle vittime e i loro cari, perché non si tratta di decessi inevitabili ( gli esperti ci dicono che solo i terremoti non sono prevedibili), ma il risultato di norme e misure di sicurezza ignorate.
In questa “mattanza” non vengono risparmiati nemmeno i bambini. Nel report “Giovani, salute e sicurezza”, presentato nel 2020 durante la Giornata mondiale per l’eliminazione del lavoro minorile, è stato stimato che nel mondo ci siano 152 milioni di adolescenti di età compresa tra i 5 e i 17 anni, coinvolti nel lavoro minorile. Di questi 73 milioni svolgono lavori pericolosi con un’incidenza degli infortuni fino al 40% in più rispetto ai lavoratori adulti, senza contare i maggiori rischi per la loro salute.
Secondo Eurostat il paese con più incidenti o meglio con il tasso di incidenza più elevato ( numero infortuni in rapporto alla popolazione occupata), è Cipro, seguito dalla Bulgaria e poi dall’Italia.
In Italia, secondo i dati dell’Inail, negli ultimi quattro anni le denunce per infortuni sul lavoro con esito mortale sono state 6.699. Un dato del genere significa che mediamente in Italia sono morte più di 4,5 persone ogni giorno dal 2018 al 2022.
Se è questa la realtà con cui ci dobbiamo misurare, ogni nostra riflessione deve partire dalla considerazione che dietro ogni lavoro c’è una persona e chi lavora ha diritto a non essere lasciato solo, soprattutto da parte delle istituzioni, perché la vera tutela della salute si attua sempre dando diritti e dignità a chi lavora.
Questa quotidiana tragedia, di cui non si vede la fine, non dipende dal destino cinico e baro, ma da un modello di società che dà per scontati tre morti al giorno: è il prezzo che siamo disposti a pagare ad un sistema socio-economico che ha come primario obiettivo quello di perseguire il massimo profitto.
Gli aspetti fondamentali delle cause di questi omicidi di lavoro sono:
- la maggioranza dei datori di lavoro pensa che la prevenzione e la sicurezza sul lavoro sia un costo da ridurre al minimo. Quindi la VdR (valutazione dei rischi), prevista dalla normativa del Testo Unico sulla sicurezza, resta sulla carta, in termini burocratici, senza interventi che possano prevenire gli incidenti;
- si cerca di ridurre i costi del lavoro , senza investimenti sugli impianti. Spesso per incrementare la crescita si tolgono anche i dispositivi di sicurezza esistenti;
- si incrementano i ritmi di lavoro, crescono le ore di straordinario per non assumere nuovo personale, questo comporta che si lavora sempre sotto stress;
- non c’è formazione, informazione e addestramento dei lavoratori, soprattutto nelle piccole aziende, niente prevenzione sui macchinari e nemmeno i dispositivi di sicurezza individuale, tanto che dai controlli emerge che l’80% delle aziende non sono in regola.
- La vera prevenzione della salute si attua attraverso un equilibrio tra tutele individuali e collettive. Il rispetto degli orari, riposo e salari; la formazione, la professionalità, la stabilità nell’impiego rappresentano la necessaria pre-condizione per un lavoro serio e dignitoso.
La riduzione del costo del lavoro però dipende anche dalla legislazione perversa perseguita dai governi di centrodestra e centrosinistra: la depenalizzazione del Testo Unico voluta dall’ultimo governo Berlusconi e lasciato invariata da tutti gli altri governi, con il risultato che i datori di lavoro preferiscono pagare una multa piuttosto che investire nella sicurezza.
La scelta politica che ha favorito i morti sul lavoro è stata lo Jobs Act di renziana memoria, con esiti nel tempo sempre più drammatici, perché, essendo stato abolito il diritto al reintegro in azienda del lavoratore licenziato senza giusta causa ( con l’abolizione l’art.18 per i nuovi assunti), il lavoratore è costretto a vivere il proprio lavoro in condizioni di minor sicurezza, e a volte, per paura di essere licenziato, nasconde con la “malattia” quella che invece è una patologia da infortunio lavorativo.
E’ bene ricordare che i nostri Padri Costituenti consideravano il lavoro elemento centrale della democrazia e non in senso astratto. Questo principio, fino alla seconda metà del Novecento, ha permesso di acquisire importanti conquiste, non solo in termini retributivi e di condizioni, ma anche di status.
Nel passato si era orgogliosi di appartenere alla classe operaia, e questa identità era scandita da esperienze, da competenze, da professionalità che le davano voce e ruolo nella vita sociale dentro e fuori la fabbrica. Era un’Italia che cresceva in dignità e protagonismo nella società civile.
Naturalmente non c’è nessuna nostalgia per quel sistema fordista che ha modellato e inquinato in modo irreversibile anche il modello attuale, ma aveva un vantaggio: favoriva l’azione collettiva. La fabbrica “assemblava” non solo le auto, ma anche gli uomini e le donne che avevano il compito di organizzare le lotte dentro e fuori la fabbrica, sul territorio. .
Quegli anni sono stati segnati da un grande movimento di massa, la cui vivacità ha dato vita alle grandi battaglie per il lavoro, per la sicurezza sociale, per l’uguaglianza, per i diritti.
Lo sviluppo di quel sistema organizzativo, che ruotava intorno a grandi unità produttive ed a innovazioni radicali dell’organizzazione del lavoro, poteva creare condizioni meno stressanti e più sicure, ha invece reso la prestazione più povera, precaria e frantumata in mille rivoli.
Anche con il modello fordista il numero degli incidenti sul lavoro ha fatto registrare punte inaccettabili. C’erano decessi quasi quotidiani, ma ufficialmente, come alla Fiat, ad esempio, non si moriva mai dentro la fabbrica. Quando succedeva un incidente mortale, la vittima veniva trasportata fuori e lasciata in prossimità del cancello dove lavorava, in modo che il referto medico certificasse la morte in autombulanza e l’azienda non veniva coinvolta.
A partire dagli anni ‘80 il lavoro è diventato sempre più temporaneo e parcellizzato. Non c’è più una figura egemone che lo rappresenti.
Gli operai non sono più classe organizzata, hanno perso autorevolezza, non sono considerati più protagonisti della vita collettiva. Il lavoro manuale ha subito un processo molto violento di marginalizzazione economica, sociale e culturale.
Quel grande patrimonio sociale nel tempo si è disperso sotto i colpi dei nuovi cicli di produzione che vengono sistematicamente esternalizzati. Il sindacato, in quella fase storica, non ha avuto più la capacità di ricomporre le fasi di lavoro, di leggere la realtà che si viveva in fabbrica sia dal punto del benessere lavorativo e sia dal punto di vista professionale.
Sono venute meno le risposte collettive, e anche il sindacato si è rinchiuso nelle sue stanze, privilegiando l’offerta di servizi piuttosto che dare risposte politiche.
Le morti bianche
Sulle morti bianche si sono dette e si scrivono una marea di sciocchezze a cui si sommano comportamenti molto ambigui e ipocriti.
Non si muore tanto “sul lavoro” bensì si muore “di lavoro” perché troppo spesso conta più il prodotto del produttore, il risultato più che il modo per raggiungerlo, le cose più della vita delle persone.
Nei primi cinque mesi del 2024 hanno perso la vita 369 lavoratori, + 3,1% del 2023, record per le patologie legate alla professione (+ 24%). E’ una contabilità da brividi. In Italia il lavoro uccide più della mafia. Infatti, tra il 1983 e il 2018, ci sono stati 6.681 omicidi della criminalità organizzata, contro i 55 mila morti sul lavoro.
E’ una strage silenziosa che si snoda lungo tutto lo stivale, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Ma queste cifre sono sicuramente sottostimate poiché i lavoratori hanno paura di denunciare irregolarità, magari perché lavorano in nero o per non correre il rischio di essere licenziati. Per aumentare la produttività c’è una rincorsa a non rispettare le leggi, e gli incidenti sono regolarmente nascosti.
E’ necessario inoltre ricordare che le statistiche ufficiali non tengono conto di alcune categorie di lavoratori. Nei dati Inail non rientrano le forze di polizia, i vigili del fuoco e le forze armate, i liberi professionisti con partita Iva, gli sportivi dilettanti e parte del personale di volo.
La mortalità è più elevata tra i 55-54 anni. Il giorno più pericoloso è l’ultimo lavorativo della settimana, cioè il venerdì; infine si muore con più facilità nelle ultime ore della prestazione, cioè verso il fine turno.
Si muore anche in età giovanissima, (tra i 15 e 20 anni) e il livello di emergenza per i lavoratori stranieri è quasi il doppio rispetto agli italiani, con una incidenza di mortalità del 25% contro il 14%.
La maglia nera delle morti bianche spetta alla Lombardia, seguita da Emilia Romagna e Veneto, si muore di più dove c’è più lavoro. Nel sud il primato è della Puglia.
Secondo i dati degli Ispettorati per il lavoro, il 76,48% delle aziende controllate hanno presentato irregolarità, e più di 3 su 4 non erano a norma. Molti lavoratori sono stati scoperti senza contratto, o con contratto dei metalmeccanici o del multi-servizi, perché meno costosi.
Gli imprenditori giustificano questa miope logica come necessità per essere competitivi sui mercati internazionali, ma non è così: la competitività delle imprese sui mercati si misura proprio dalla capacità di effettuare investimenti di qualità, compresi anche quelli sulla sicurezza.
A tale proposito il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) prevede che entro il 2024 l’Italia aumenti il numero di ispezioni sul lavoro del 20% rispetto alla media annuale del periodo 2019-2022. Questo significa che i controlli degli ispettori dovrebbero passare da circa 85 mila a circa 102 mila all’anno.
A questo punto è lecito domandarsi quale ruolo dovrebbero svolgere le istituzioni pubbliche, e in particolare verificare quali scelte il governo intenda operare per circoscrivere il fenomeno delle morti bianche.
Il Governo…vuol bene agli operai ?
Per affrontare il dramma degli incidenti sul lavoro, il governo Meloni ha riproposto la vecchia strada di approvare un ennesimo Codice degli appalti, che, entrato in vigore nell’aprile del 2023, (era uno degli obiettivi di riforma previsti dal PNNR) aveva lo scopo “di disciplinare, accelerare e snellire le procedure per aprire nuovi cantieri”.
Uno dei più pericolosi provvedimenti licenziati dal nuovo-vecchio Codice, è stato quello di riproporre il subappalto a cascata, che avrà “il merito” di portare nel settore pubblico quanto di peggio già accadeva nel settore privato: frammentazione dei cicli produttivi, un incentivo al nanismo, alla nascita di società “scatole vuote”, ad imprese senza dipendenti che prenderanno in appalto lavori pubblici, per poi subappaltare la commessa ad altre, che subappalteranno a loro volta, in una catena senza fine. Un vero Far West.
C’è da rilevare come il ricorso sistematico agli appalti permette di diminuire al minimo la responsabilità delle strutture apicali previste dalla legge 81/2008, in quanto è spalmata tra una pluralità di soggetti, rendendo difficile risalire al responsabile principale,
Il governo sempre per mantenere vivo quel suo “amore”…per la magistratura, ha pensato bene di indebolire il ruolo di controllo dell’Autorità Anticorruzione, con il ritorno alla disciplina degli anni duemila.
Siamo d’accordo che vengano eliminati tutti gli orpelli burocratici, ma se velocizzare significa più incidenti, più zone grigie, meno garanzie per i lavoratori, il risultato sarà quello di rendere più difficili i controlli per le stazioni appaltanti, per i sindacati per le prefetture. Non ci siamo!
Gli appalti liberi, quelli sotto i 5,3 milioni di euro, per l’80% sono assegnati senza gara, aprendo così un’autostrada alla criminalità organizzata.
Inoltre il governo ha praticamente dimezzato il risarcimento alle famiglie delle vittime del lavoro, la quota minima scende da 6 a 4 mila euro, la massima dai 22 ai 14 mila euro. E ha pensato bene di ridurre le ore di formazione.
L’esecutivo ha approvato nel febbraio scorso un decreto Omnibus di 49 articoli di cui solo una minima parte è riferita alla sicurezza sul lavoro. Tra le novità, è prevista l’ approvazione della cosiddetta patente a punti, l’aumento dei controlli con sanzioni penali nel caso di appalti e subappalti non regolari
La ministra Calderone ha affermato che: “il nostro obiettivo è fare in modo che la patente a crediti diventi uno strumento non solo per il settore edile ma che sia esteso anche ad altri settori che devono avvantaggiarsi di esso per valorizzare percorsi positivi perché col tema dei crediti c’è quello della qualificazione delle aziende”.
La patente a punti era attesa da sedici anni, e prevede un sistema di punteggio che parte da 30 crediti che via via vengono ridotti in caso di violazioni, con la possibilità per l’Inail di decidere la sospensione cautelativa della patente, quando si verificano eventi gravi con esiti mortali, per i quali è prevista una detrazione di 20 punti, o in caso di inabilità permanente (15 punti).
La proposta, però, ha incontrato forti critiche da parte dei sindacati CGIL e Uil, perché come ha detto Francesca Re David della segreteria della CGIL, il sistema dei crediti è troppo farraginoso, poiché parte da 30 e può arrivare fino a 100, rendendo impossibile la sospensione della patente anche in caso di infortuni gravi, e sarà difficile persino perdere punti.
I rappresentanti sindacali hanno poi sottolineato i rischi derivanti dai tempi troppo lunghi per vedere le prime decurtazioni di crediti o sospensioni della patente. Il decreto attuativo vincola anche gli ispettori del lavoro, rendendo difficile la sospensione dell’attività in caso di gravi infortuni o assenza di misure di sicurezza.
E’ da apprezzare come nel decreto Omnibus venga definita una norma contro il dumping salariale negli appalti. E’ stato deciso che ai lavoratori vada applicato un trattamento economico, normativo e di salvaguardia della sicurezza previsto dal CCNL del settore di riferimento( nel caso specifico quello degli edili) stipulato dalle parti sociali. Vedremo se la norma verrà rispettata.
Sindacato: un’occasione da non perdere
Negli ultimi trent’anni il mondo del lavoro è stato segnato da profondi cambiamenti che, il più delle volte, sono entrati in conflitto con i diritti e le tutele che il sindacato era riuscito a garantire ai lavoratori nel corso del Novecento. Parallelamente si è indebolito il suo potere negoziale sia nei confronti del padronato, sia rispetto alle forze economiche che governano i mercati.
Una delle sfide più importanti a cui sono stati chiamati i rappresentanti dei lavoratori è stata quella di contrastare l’intreccio tra la flessibilità, e la concentrazione dei poteri decisionali nelle mani di pochi soggetti. La competizione tra imprese si è fatta sempre più intensa, gli spazi di negoziazione si sono ridotti e le condizioni di vita e di benessere lavorativo sono diventate più precarie.
Il crescente sviluppo dei mercati internazionali, la diffusione di nuove tecnologie, hanno posto il sindacato su una posizione difensiva, incapace di parlare un linguaggio in grado di intercettare le nuove dinamiche del lavoro. Per dirla con un libro profetico di Bruno Manghi di 40’ anni fa, il sindacato “declina crescendo”.
I recenti modelli organizzativi e produttivi hanno esaltato la condizione individuale e atomizzata dei lavoratori, i quali si sentono sempre più indifesi, soli di fronte al padrone, almeno quando il padrone è visibile. Anche la tutela sindacale scivola sempre più verso una salvaguardia individuale, di servizio, di consulenza.
Non è facile rappresentare un mondo del lavoro dove i suoi componenti faticano a riconoscersi in una comune azione, e le forme di lavoro sono un gran numero, in continua e rapida trasformazione.
Alla sparizione delle solide identità collettive, sulle quali nel passato si era strutturata la rappresentanza del mondo del lavoro, si è associata la frammentazione del lavoro, rendendo il ruolo del sindacato sempre più difficile da esercitare.
Di conseguenza il suo ridimensionamento non è stato solo il frutto di strumentali strategie politiche e di governo, ma è stato il portato irreversibile di una società che, grazie anche alla rivoluzione digitale, ha determinato una condizione di lavoro sempre più isolata e fluida.
Cambia la stessa idea del lavoro e del modo di lavorare, che nella società industriale 4.0 era sinonimo di sfruttamento, di alienazione. E’ mutata radicalmente la concezione dei mercati del lavoro, non più statici ma transizionali, tutelati non solo da regole giuridiche, ma anche da reti sociali di protezione tarate sulla persona piuttosto che su luoghi fisici.
Diversamente dal passato, la stessa prestazione, grazie alla diffusione delle connessioni internet, può essere resa ovunque, rispetto ai luoghi e tempi tradizionali.
Ci troviamo di fronte ad una realtà insidiosa e complicata da comprendere. Affrontare la dimensione solitaria del lavoratore, significa aprire una sfida cruciale, perché questa sua condizione di malessere è prima di tutto “cognitiva”, dove l’esser solo non viene inteso come condizione transitoria, superabile, ma come una situazione oggettiva.
In questo contesto il sindacalista, oltre ad avere un compito marginale dentro le aziende, ha perso la voglia di studiare, di analizzare, di contrattare e contrastare le condizioni di vita e di sicurezza che si vivono dentro la “nuova fabbrica”, penalizzando ancor di più il suo ruolo negoziale sia sul piano della tutele professionali, sia sul piano del benessere lavorativo.
Non ci sono soluzioni semplici alla complessità dei problemi che oggi sono in campo. La lettura del conflitto sociale solo in chiave economica e redistributiva ha fallito. Occorre riscoprire nuovi elementi d’analisi che, in assenza di un’identità politica forte, sia capace di riconquistare fiducia tra i lavoratori e delegato sindacale E’ una questione di costanza, di presenza, di abnegazione.
Abbiamo visto in precedenza come sia evidente il profondo divario tra la retorica di una nuova cultura della sicurezza, e i dati offerti dalle statistiche circa i morti e gli infortuni sul lavoro. L’esperienza quotidiana evidenzia uno scollamento tra la tanto declamata modernità e la fragile quotidianità di chi vive gli ambienti di lavoro.
Infatti è ormai acquisito il dato che, al di la di ogni enfasi sulla nuova modernità, sul lavoro si muore esattamente per le stesse ragioni e con le stesse modalità di come avveniva cinquant’anni fa.
La riflessione dottrinale oggi è impegnata nel non facile compito di ripensare il concetto di organizzazione del lavoro inteso, come cardine di un moderno ed efficace sistema di prevenzione aziendale,( L.Montuschi Diritto alla salute e organizzazione del lavoro), ma la realtà sembra muoversi in tutt’altra direzione.
Si conferma l’idea che l’Od.l. non sia una semplice sovrastruttura, ma piuttosto un rapporto, variabile nello spazio e nel tempo, tra modelli modelli teorici più o meno sofisticati (norme, procedure tecnologie, sistemi di comunicazione, ruoli, professionalità, macchinari etc) e le persone in carne ed ossa con tuti i loro punti di forza, ma anche limiti.
Non possiamo fermarci alle parole, dobbiamo agire con determinazione per garantire di benessere dei lavoratori, per garantire che possano tornare a casa dopo una giornata di lavoro. La prevenzione ancor più delle azioni repressive è la strada da seguire. Una prevenzione che sia cultura individuale di ciascun cittadino, che parta dalle scuole fino al cittadino adulto.
Il compito del sindacato è di rimettere in campo una qualità di obiettivi capaci di dare dignità e valore ai nuovi lavori, consapevoli che il benessere psicofisico, la dimensione emotiva sono diventati elemento essenziale dell’agire sindacale..
E’ necessario, quindi, creare le condizioni per una diffusa iniziativa di lotta organizzata nei posti di lavoro che faccia crescere la coscienza politica di rifiutare ogni prestazione a rischio, di sviluppare una contrattazione continua, giornaliera da parte delle strutture sindacali su tutta l’organizzazione del lavoro; una diffusa iniziativa generale sul tema dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro e nella società
Ogni vita persa, ogni infortunio grave o malattia a causa della mancata prevenzione è un fallimento ma anche un costo. Dobbiamo trasformare queste tragedie in un impegno concreto e costante di tutti i cittadini/lavoratori
Oggi più di ieri è indispensabile il coinvolgimento di tutta la società civile, perché si è aperto un problema a livello democratico molto serio. Ogni giorno verifichiamo quanto si faccia sempre più ampia la frattura tra i travet della politica e i cittadini, e quanto cresca la sfiducia nelle istituzione. E’ un tema che non possiamo più sottovalutare.
Le bugie del presidente Meloni
E’ sempre più evidente come i nostri concittadini abbiano la sensazione di vivere una realtà a due dimensioni. La prima quella di cui si nutre ogni giorno il potere, è fatta di propaganda che prevede una sistematica distorsione della realtà.
Piccoli spostamenti percentuali del PIL o dei lavoratori occupati vengono letti e diffusi come risultati eclatanti che porterebbero l’Italia ad essere una delle economie più sane a livello europeo. Certo non possiamo che rallegrarci se questo fosse vero.
Il problema è che questi risultati si collocano in contesto nazionale le cui condizioni macroeconomiche sono strutturalmente tutt’altro che brillanti. Ne possiamo gridare di gioia se la locomotiva Germania ha difficoltà a trainare tutta l’economia europea.
La sottigliezza propagandistica sta nell’omettere non piccoli dettagli: la realtà ci dice infatti, che l’economia italiana rimane soffocata dal debito pubblico, che occupa l’ultimo posto in classifica per tasso di occupazione, che ha il più basso indice di qualità della scuola, che la disoccupazione è sopra la media europea; manca un piano complessivo di investimenti; si sono finanziate voci di spesa corrente improduttive che hanno un riscontro elettore immediato; che il dato relativo ai redditi delle famiglie, nel 2023 era pari al 93,7% di quello del 2008! Praticamente, fatta salva qualche eccezione, i salari sono fermi da quasi quindici anni .
La prossima legge di bilancio sarà certamente la cartina di tornasole circa le reali condizioni della nostra economia. Le prospettive macroeconomiche dicono che senza consistenti tagli della spesa corrente difficilmente sarà arduo realizzare qualsiasi intervento a favore dei lavoratori e delle loro famiglie o imprese. Giorgia quando dirai la verità al popolo italiano?
Di contro proprio alcuni giorni fa la Presidente del Consiglio è andata in televisione e, per sottolineare in maniera forte quanto di buono abbia fatto il suo governo, con piglio deciso, ha ripetuto più volte che “ si sta riscrivendo la la storia del nostro Paese.”
Fino a quando gli italiani potranno sopportare queste bugie?