di Ascanio Celestini
Non conosco gli intrighi della politica romana. Non conosco i pettegolezzi di salotto. Non mi interessano le antipatie tra leader, né gli scontri tra correnti. Ignoro le manovre che si muovono sotto il pelo dell’acqua dell’informazione.
E mi astengo dalla pidocchiosa lettura tra le righe. Mi disgusta pensare che qualcuno stia tirando i dadi per conquistarsi una posizione nel prossimo governo cittadino, qualunque esso sia.
Ho visto stimabili professionisti alzare i tacchi da Vicolo Stretto per «ricicciare», come si dice a Roma, a capo del Parco delle Vittorie. Ne ho visti così tanti che non mi ricordo più i nomi, non li distinguo.
Ma l’ennesimo sgombero di uno spazio di libertà nella città che abito mi fa vedere in prospettiva una sconfitta culturale e umana che non sono disposto a vivere.
Il Cinema Palazzo sta in un quartiere che fu operaio. Ferito dal fascismo, dalle bombe, dall’occupazione nazifascista. Attraversato dalla contestazione studentesca e dall’impegno nei decenni più vivaci e conflittuali.
E ieri mattina è stato chiuso dal braccio armato della politica che ha rivendicato l’atto con un tweet: «Ringrazio la Prefettura e le forze dell’ordine per le operazioni di sgombero di oggi. A Roma le occupazioni abusive non sono tollerate. Torna la legalità».
Nelle stesse ore in cui avviene lo sgombero di uno spazio di socialità, infatti, si chiude anche un pub di estrema destra. È il ritorno di fiamma della teoria degli opposti estremismi declinata in una forma più moderna. Basta un cinguettio di Virginia Raggi per rispolverarla, impacchettarla e rivenderla ai consumatori del nuovo millennio, prossimi elettori della sindaca.
Rossi, neri, alla fine tutti uguali. Tanto i commentatori della televisione o della rete non ne sanno nulla. A malapena hanno un’idea di cosa sia uno spazio autogestito. O forse no, non ce l’hanno affatto.
Così il recinto che si ritagliano i neo o post fascisti alla faccia della Costituzione, con la coscienza gonfia di bombe e stragi, ma con le spalle coperte da decenni vale tanto quanto un cinema abbandonato che stava per diventare una sala Bingo. Un edificio che fa gola a chi vuole trasformare anche quest’ultimo spazio per i cittadini in un locale per consumatori.
Più sofisticata è la dichiarazione del vice della Raggi. «È una perdita di ricchezza per la comunità non essere riusciti a trovare una soluzione che rispettasse i diritti della proprietà e consentisse allo stesso tempo la continuazione dell’esperienza e delle attività in quel territorio, nel rispetto delle regole. Lo sgombero disposto dalla prefettura mette in evidenza questo fallimento».
Basta un’analisi semplice per notare che sui due piatti di una stessa bilancia non ha messo rossi e neri come la sua sindaca. Luca Bergamo non è stato così ruvido. Sulla sua bilancia ci mette la proprietà privata e la funzione sociale e culturale. Ovviamente la seconda pesa molto meno. E gli si chiude la porta in faccia, poi si vedrà. Nella città eterna in mano ai palazzinari si conclude un capitolo con la vaga promessa di un vincolo culturale e l’ancor più vaga ricerca di una sede idonea per chi ha animato una comunità.
Franca scende in piazza e segue il corteo per difendere il Cinema Palazzo. Ha i capelli bianchi e porta un fazzoletto tricolore al collo. Classe 1938, l’anno delle leggi razziali. Figlia del «fioraio» Agostino Raponi, partigiano della V° Zona di Roma. «Mio padre stava a Via Tasso con Leone Ginzburg. Lo prese in braccio dopo che l’avevano torturato a morte – mi dice – Come fanno a metterci sullo stesso piano dei fascisti?»
No, cara Franca. I neo o post fascisti servono solo a una parte della fascinazione del messaggio politico. Con uno spirito più moderno l’esperienza del Cinema Palazzo ha come avversario la speculazione, lo svilimento di una comunità che reagisce al vuoto.
Non conosco gli intrighi della politica romana. Non conosco i pettegolezzi di salotto. Non mi interessano le antipatie tra leader, né gli scontri tra correnti.
Mi disgusta sapere che la campagna elettorale che porterà all’elezione del prossimo sindaco di Roma stia passando sulla storia di un quartiere dove la resistenza al fascismo è stata affiancata da una resistenza all’omologazione culturale.
dal “Manifesto” del 26 novembren 2020