A cura di Ugo Balzametti
Continua l’appassionato viaggio di Ugo intorno ai tempi cari al nostro blog.
Il Rapporto IPCC
L’IPCC, nei suoi rapporti pubblicati ogni sei anni circa , riassume i risultati delle ricerche mondiali in materia di cambiamenti climatici. E’ l’analisi più aggiornata di cui può disporre il mondo scientifico. Collaborano più di 300 scienziati di 52 Paesi diversi che mettono a disposizione ed a confronto la loro esperienza di ricerca.
Il rapporto sancisce definitivamente ogni forma di riduzionismo, così come l’evidenza scientifica della mano dell’uomo sui processi in atto è provata senza alcun ragionevole dubbio.
Il riscaldamento globale e il cambiamento climatico che ne consegue sono ormai temi che raccolgono sempre più l’attenzione delle persone e rappresentano un problema da affrontare in ogni ambito, anche quello finanziario.
Questi effetti possono colpire attività di imprese e famiglie, aumentando la loro vulnerabilità finanziaria. Nello stesso tempo il valore dei beni offerti a garanzia per ottenere credito può essere ridotto.
Il 2021 è stato l’anno in cui il cambiamento climatico si è manifestato con maggiore intensità e l’ultimo rapporto di valutazione dell’Interovernmental panel on climate change (Ipcc) ha evidenziato che alcuni impatti sono ormai irreversibili.
Vengono chiamati “tipping points”, ovvero punti di non ritorno, come lo scioglimento delle calotte glaciali della Groeelandia, o la sparizione della foresta tropicale nell’Amazzonia a causa dell’aumento della siccità. Purtroppo il confronto tra i diversi Paesi rispetto agli impegni assunti nella Conferenza di Parigi del 2015 circa la riduzione delle emissioni di gas climalteranti è stato deludente, non solo per non aver mantenuto gli impegni finanziari verso i Paesi poveri, ma soprattutto per il mancato obbiettivo di mantenere l’aumento del riscaldamento globale entro il limite di 1,5° nel 2030.
Come evitare l’ambientalismo di facciata
E necessario evidenziare che, al di là dell’atteggiamento dei Governi, in questa nuova ed importante partita, un ruolo condizionante è giocato dalle grandi concentrazioni di capitale finanziario, con le multinazionali interessate al business dell’energia schierate in prima fila. Giocano in proprio, assumendo decisione nel proprio esclusivo interesse, condizionando le politiche dei singoli Stati.
Alla Conferenza di Glasgow sono stati accreditati 503 lobbisti e circa 100 compagnie petrolifere e minerarie. Ed è emerso in modo chiaro come abbiano condizionato le scelte fatte in materia di fonti fossili e di utilizzo di energia “sporca”
L’accordo, almeno sulla carta, è di “rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso verso base emissioni di gas serra e uno sviluppo resiliente al clima” con una valutazione biennale di questi flussi.
Qualcosa si muove. Fino ad ieri le multinazionali rifiutavano semplicemente l’esistenza del fenomeno del riscaldamento climatico e di conseguenza rifiutavano di farsi carico delle emissioni inquinanti tentando di scaricare i costi sulla collettività.
Oggi di fronte ai seri rischi di eventi rovinosi che coinvolgerebbero le attività di estrazione e di produzione mineraria, compromettendo profitti e valori delle aziende, nonchè la prospettiva di vedersi mettere in discussione aspetti essenziali del modello di sviluppo, i grandi capitali stanno dando un’attenzione più significativa ai temi del clima e dell’ambiente.
In genere vengono seguite due linee di indirizzo. La prima è la difesa sostanziale degli attuali sistemi di estrazione e di produzione, compreso l’utilizzo di combustibili fossili, rispetto alle rivendicazioni di una cessazione immediata o riduzione consistente in tempi brevi, onde evitare shock all’economia .
La seconda , collegata alla prima, è quella di una ristrutturazione graduale dei sistemi produttivi con massicci investimenti sulle nuove tecnologie, sul nucleare naturalmente “pulito”, sulle energie alternative, su nuovi prodotti ecocompatibili, sul ripristino di alcuni equilibri ambientali già compromessi. In sostanza si punta a mantenere il più possibile l’esistente ed a intervenire per correggere l’impatto sull’ambiente.
Si agisce sugli effetti e non sulle cause delle alterazioni in quanto si continua ad obbedire all’imperativo della crescita e al modello di sviluppo fondato sui consumi di massa.
Per affrontare davvero la crisi ambientale, che ha nel riscaldamento climatico legato ai dissennati comportamenti dell’uomo, occorre andare alle radici delle cause strutturali che l’hanno prodotta e che per decenni è stata ignorata
Peraltro le emergenze o eventi estremi ampliano le prospettive di investimento e le aspettative derivanti dall’economia reale aprono spazi di speculazione della finanza derivata. Non a caso si registra l’andamento positivo delle borse mondiale nell’era pandemia
Tutto ciò crea le condizioni idonee per influenzare la politica degli Stati, e per interferire anche sui leaders politici attraverso Fondazioni, università controllate e finanziate dai grandi capitali al fine di favorire orientamenti funzionali alla stabilità del sistema.
Si possono fare vari esempi, dalla ormai famosa Fondazione Rockefeller che ha creato il Gruppo dei 30 (Draghi è il coordinatore), alla Trilaterale, fino alla Fondazione Agnelli.
Alcune Fondazioni già sono impegnate in progetti di tutela dell’ambiente, soprattutto nei Paesi meno sviluppati. A Glasgow è stata annunciata la definizione della “Global Energy Alliance, cui partecipa la Fondazione Rockefeller, la Fondazione Bezos (Amazon) e IKEA, allargata alla Banca Mondiale ed ad altre banche e fondi di investimento.
Nel corso della COP26 è stata costituita anche la Glasgow Financial Alliance for Net Zero cui hanno aderito 450 banche, gestori patrimoniali, assicurazioni, in rappresentanza di 45 Paesi.
L’alleanza che rappresenta il 40% del mondo della finanza dovrebbe mettere sul tavolo finanziamenti pari a 130 trilioni di dollari, così suddivisi: banche con 63 trilioni di dollari, gestori con asset per 57 trilioni di dollari, fondi pensione per altri 10 trilioni di dollari.
In teoria questo può voler dir che i prestiti bancari, prima destinati alle aziende di combustibili fossili ed aziende agricole, cambieranno rotta verso fonti rinnovabili o investimenti in progetti green e di transizione energetica.
Ma, nonostante la messa in campo di queste importanti cifre, alcune nubi si addensano all’orizzonte. Non sono gli uragani, ma il rischio di disperdere i soldi della finanza sostenibile in mille rivoli, senza nessuna strategia.
Cento miliardi di dollari per aiutare i Paesi poveri a ridurre le emissioni, a prima vista, potrebbe sembrare un impegno generoso. Manca tuttavia un accordo su come spendere questa massa di denaro, chi debba riceverli, cosa rientra sotto l’ombrello della finanza sostenibile. Non c’è un piano concreto.
Alla politica degli annunci si contrappone la realtà, ovvero non è richiesto ai membri di interrompere i finanziamenti alle fonti fossili, non c’è alcuna regia per una azione immediata e trasparente,
Per evitare il greenwashing ( letteralmente lavaggio green, ambientalismo di facciata)), servono sistemi di controllo vincolanti, di monitoraggio istituzionalizzato che controlli l’avanzamento degli impegni assunti. A partire dal 2013 l’impegno non è stato mai rispettato, e l’obbiettivo dei 100 miliardi di dollari ha valore più simbolico che reale.
Alla COP26 gli Stati e i governi presenti hanno rinnovato l’obiettivo di “ almeno raddoppiare” il loro sostegno collettivo per aiutare in Paesi in via di sviluppo. Ciò significa che l’IEA , l’istituzione europea dell’energia, prevede che bisognerebbe triplicare gli investimenti in progetti di energia pulita, per cui il 70% dovrebbe concentrarsi nei paesi emergenti. L’obiettivo sembra sufficientemente demagogico.
Quando si parla di grandi istituzioni finanziarie , si deve essere consapevoli che sono in ballo interessi enormi che inducono a ritenere la discussione sul new green deal un dibattito che in realtà cela una transizione di politica industriale globale e di riposizionamento di molti Paesi che una transizione ecologica..
Ma mentre i governi faticano a trovare un equilibrio tra la necessità di accelerare sulla transizione energetica e quella di evitare di evitare shock all’economia reale ancora dipendente dalle fonti fossili, la finanza mondiale ha già deciso che la sostenibilità è business del futuro. Non solo perché la lotta al cambiamento climatico non è più procrastinabile, ma anche perché investire sui criteri ESG sta diventando conveniente. La sostenibilità è il business del futuro.
Sono i numeri che confermano questa scelta: nel primo trimestre del 2021 gli investimenti sulle rinnovabili hanno raggiunto 174 miliardi di dollari, una cifra mai registrata, mentre dal 2015 ad oggi si arriva a 2.200 miliardi spesi in energia pulita. Ipotizzando una crescita del 15%, un ritmo più lento di quanto registrato negli ultimi 5 anni, si prevede che entro il 2025 gli investimenti in asset ESG arriveranno a 53 mila miliardi rispetto ai 37,8 mila miliardi stimati entro la fine del 2021.
Ma da questi numeri possiamo far scaturire un’altra lettura. Non basta usare spesso la parola “green economy”, non basta dare un nome green ad un ministero. La transizione ecologica verniciata di verde serve solo a rivitalizzare il mercato, anzi con queste ricette la riconversione diventa un nuovo business verso il quale orientare gli investimenti, restando dentro la logica economicistica e finanziaria.
“La bollinatura verde” praticata dalle multinazionali serve solo a coprire logiche di profitto che non presuppongono alcuna modifica di paradigma, bensì presuppongono la conservazione, anche l’aumento, del livello di benessere dei Paesi più ricchi a scapito di quelli più poveri, e dell’equilibrio delle risorse del Pianeta.
Oggi si fanno scelte di politiche green non perché i grandi capitali hanno scoperto un’etica negli investimenti, ma perché chi deve operare nel medio-lungo periodo va dove la business line è più conveniente.