“La storia della Fisac CGIL affonda le sue radici nella memoria e nei valori della Resistenza antifascista. Il protagonismo del sindacato si qualifica attraverso, lo studio, le competenze ,la capacità di gestire e controllare i processi di ristrutturazione i cui effetti incidono sulla salute dei lavoratori.
Riprogettare il Sindacato oggi più che un impegno è una necessità. Il lavora sta cambiando forma, le forme danno vita a nuovi algoritmi, mentre l’uomo non ha più in mano gli arnesi per aggiustare la democrazia economica. L’economia ha cannibalizzato la democrazia?
Oggi ce ne parla Ugo Balzametti.
Se non ora quando..?
”Forse un giorno sarà giovevole ricordare tutto ciò”, con le parole di Virgilio si concludeva il docufilm che, presentato al Congresso di Bari nel 2006 per il Centenario della CGIL, ripercorreva l’intera storia della Fisac CGIL. Non so quanti nostri iscritte/iscritti abbiano potuto vedere questo contributo del gruppo di lavoro da me coordinato, che aveva il pregio di restituire alla memoria le figure di donne e uomini che con il loro impegno e dedizione avevano gettato a Bari, il 13 maggio del 1944, le fondamenta e fatto crescere poi la nostra organizzazione . Il percorso documentato nel film è segnato dalla presenza di dirigenti che venivano dalla esperienza partigiana, donne e uomini di spessore politico, morale, culturale che permisero alla Fisac CGIL, fin da quegli anni, di essere punto di riferimento dell’intera categoria. Importante è stato il contributo dato dalla categoria nel biennio 1943/ 1945 che vede come alla lotta armata della Resistenza si giunga attraverso un processo capillare che coinvolge il mondo del lavoro, non solo nelle sue componenti operaie. In quel periodo il regime fascista dovette registrare il progressivo distacco proprio di quei ceti sociali e categorie professionali che erano stati più coinvolti nella modernizzazione del regime. La legge bancaria del 1936 segnava il tentativo più alto verso quell’obiettivo. L’opposizione anche di queste realtà sociali rese irreversibile la crisi del fascismo. Il nostro viaggio ci ha fatto scoprire una realtà che colloca i lavoratori del credito tra i protagonisti della ricostituzione della CGIL nel 1945. Di Vittorio a Napoli saluta con orgoglio le quattro categorie che danno vita alla Cgil: i lavoratori della terra, i ferrovieri, i postelegrafonici e i bancari. La CGIL, con il nostro gruppo di lavoro, volle approfondire quella storia realizzando un piccolo volume che raccoglieva le testimonianze di alcuni protagonisti che, come Alfredo Pizzoni o Nella Marcellino, intrecciarono passione politica e morale con “storie” non conosciute.(1) Quei protagonisti ci hanno consegnato un patrimonio di valori identitari che spetta a noi trasmettere con la forza delle idee e con la coerenza dei comportamenti. In questo senso voglio ricordare l’intervista fatta in quella occasione al compagno Trentin il quale ci lasciò, potrei dire, il suo testamento politico , poiché è l’ultima intervista da lui fatta.
(1)Storie di Resistenza. Il contributo delle lavoratrici e dei lavoratori del settore creditizio e finanziario – Fondaz. Di Vittorio/Ediesse
Ai giovani rivolge un accorato appello: “puntate prima di tutto alla difesa dei vostri diritti e della vostra dignità”. Al sindacato consiglia di “guardare al di là della dimensione categoriale, riscoprire i valori di un’attività volontaria, concentrarsi su quelle rivendicazioni che danno più libertà. La prima rivendicazione del sindacato dovrebbe essere quella di un piano di formazione lungo tutto l’arco della vita di un lavoratore. E’ la sua assicurazione sulla vita”. Con queste riflessioni, Trentin tratteggiava il sindacato dei diritti, del programma e della solidarietà, che poneva il lavoratore al centro della sua iniziativa, con nuovi vincoli al sindacato: la parità uomo donna , l’ambiente, l’intervento sulle povertà.
In una realtà dove è in atto ormai da tempo una rapida trasformazione dei processi produttivi, con l’affermarsi dell’economia digitale, compito prioritario del sindacato è quello di leggere la società in tempo reale, di studiare come cambia il lavoro.
Questa necessità di adeguamento, riflette Trentin nei suoi diari, si deve misurare con la parte corporativa e trasformista del sindacato che misura la sua forza essenzialmente per la quantità di contrattazione che fa : tanti contratti, tanto potere. Se l’azione del sindacato confederale, anche di categoria, è condizionata dal tatticismo esasperato per conquistare potere, se prevale la logica delle cordate, se si persegue la cultura della mercificazione dei rapporti, l’unica discriminante è la fedeltà verso il capo. Pensiamo, invece, che la strada da percorrere sia quella del sindacato dei diritti e delle libertà individuali e collettive, cioè un sindacato capace di intervenire sui processi produttivi con l’obiettivo di controllarli. Il diritto al lavoro, il diritto alla cura , il diritto alla salute, il diritto all’in-formazione devono essere considerati come diritti di cittadinanza, diritti che puntano all’autorealizzazione del lavoratore . Quanto detto fin qui pone una logica domanda: “perché non misuri la tua coerenza aprendo quei cassetti rimasti chiusi per troppo tempo?”. Per quanto mi riguarda la risposta non la trovo in iniziative ‘vendicative’ miopi, ma in un confronto non più rinviabile, anche duro, sul ruolo che il sindacato vuole giocare oggi, guardando al futuro, anche alla luce della drammatica situazione causata dal Covid19.
Guardando indietro, a mio parere è necessario ripartire da l’impegno costante, realizzato ormai parecchi anni fa insieme ad alcuni pionieri a livello regionale (ad esempio la Campania) che permise di non lavorare in solitudine. Nel corso degli anni si era sviluppato un lavoro certosino di acculturamento, soprattutto nei territori, realizzato con un sistematico lavoro di sensibilizzazione, di in-formazione, di socializzazione del lavoro messo in campo. Molte realtà periferiche avevano risposto positivamente, permettendo a tanti giovani compagne/i di avvicinarsi al sindacato. La domanda che pongo è: che ne è stato di quella rete? Cosa si è fatto per rafforzarla?
Non mi dilungo su analisi di quanto e come il settore finanziario sia stato ed è caratterizzato da sistematici processi di ristrutturazione. Mi preme sottolineare, però, che allora come oggi non c’è la consapevolezza che una risposta positiva al diritto del lavoratore di godere di una condizione di benessere significa, anche, mettere in sicurezza l’organizzazione del lavoro. Sono necessari obiettivi più ambiziosi, che permettano, ad esempio, di analizzare ed intervenire sui fattori organizzativi, produttivi e umani in quanto possibili fonti di rischio per la persona. La risposta del sindacato è stata adeguata solo sul piano della tutela, costretto a rincorrere le scelte aziendali, non riuscendo mai a portare il confronto su un terreno più qualificato, di merito. Al contrario l’Abi ha colto le potenzialità che nascono dal tema del benessere lavorativo, materia considerata sempre marginale, ed ha consolidato, ormai da anni, una posizione che si muove lungo una sottilissima linea, fatta di rispetto formale delle regole quando la legge glielo impone, ma combinata a forzature interpretative per ridimensionare gli obblighi e le responsabilità del datore di lavoro. E’ inoltre evidente ormai da tempo la scelta di accentrare sempre più le relazioni sindacali a livello nazionale, svuotando di fatto il confronto decentrato e vanificando il lavoro capillare fatto nei territori. Alla luce delle riflessioni fin qui poste, risulta veramente una scelta scellerata quella di aver fatto cadere nell’oblio il lavoro allora realizzato.
“Guardare oltre” diventa l’imperativo così come è stato per quelle donne e quegli uomini resistenti da cui ho iniziato. La loro “resilienza” infatti non fu solo tenacia e solidità ma un progetto di una società di uguali, fondata su diritti certi. Lottare non solo per uscire dal buio del fascismo ma per costruire una società diversa. Nello stesso modo, con la stessa determinazione oggi siamo chiamati a misurarci con lo shock del Covid-1. La crisi globale innescata dal virus ha smascherato le disuguaglianze che dominavano la cosiddetta “normalità” e reso ancor più urgente la necessità di affrontare la crisi ambientale, le cui ricadute negative sulla salute delle persone sono evidenti. Il lockdown ha ampliato le povertà, le disuguaglianze geografiche, ha incrementato la forbice tra ricchi e poveri. I 5.000 adulti più ricchi d’Italia sono passati dal 2 al 7% della ricchezza nazionale, mentre i poveri sono aumentati di 120.000 unità. Altro dato eclatante è che per il 72% degli italiani non c’è stato un peggioramento del reddito. Questo significa che il crollo della ricchezza del 12% si concentrerà su una quota di popolazione modesta. Naturalmente il processo di globalizzazione e il cambiamento tecnologico hanno investito in pieno il lavoro e il potere del sindacato. In particolare i cambiamenti tecnologici molte volte riguardano i ceti più deboli, di contro sono crescenti i rischi per la giustizia sociale.
Le conoscenze scientifiche e le informazioni raccolte attraverso la rete hanno permesso la formazione di una “sovranità privata” di pochi monopoli sui dati personali e sugli algoritmi, modelli statistici per prendere decisioni basate sull’analisi dei comportamenti passati. Grazie alla trasformazione digitale oggi assumono una tale potenza che indirizzano quasi tutte le dimensioni sociali aprendo problemi seri per la democrazia. In particolare, gli algoritmi vengono utilizzati in molti settori dell’economia, compreso quello del credito, e penetrano su molte realtà della vita lavorativa (assunzioni, orari, lavoro a distanza), fino a condizionare aspetti rilevanti dell’attività creditizia.
La situazione avrebbe richiesto un Sindacato capace di sviluppare un salto di competenze, capace di leggere come i processi incidano sulla qualità e sulle condizioni di lavoro. In questa fase le realtà democratiche hanno segnato un arretramento politico e una subalternità culturale alla forma mentis neoliberale. In questo quadro, le strade che oggi si aprono sono tre. La prima opzione: riprendere la rassicurante strada vecchia correggendo qualche imperfezione ma con il rischio di affidarsi agli stessi principi che hanno portato alla crisi del Covid-19. La seconda via è quella più pericolosa e consiste nell’accelerare la dinamica autoritaria in atto in Italia prima della crisi. La terza opzione è cambiare radicalmente rotta per un futuro più giusto, fatto di maggiore giustizia sociale e rispetto ambientale. E’ una opzione che trova radici nei segni positivi di queste difficili settimane: azioni di solidarietà all’interno delle comunità territoriali e a livello nazionale, forme di autoorganizzazione e mutualismo, visibilità pubblica dei lavoratori. Partendo da una mappa dei cambiamenti, si possono fare scelte per il futuro individuando precise linee strategiche: il digitale al servizio della giustizia sociale ed ambientale; nuove attività e buoni lavori, prima di tutto nei territori marginalizzati; tutela e partecipazione strategica del lavoro; libertà dei giovani di costruirsi un percorso di vita; qualità della P.A.
Quanto detto ci porta a riflettere che non esiste una ricetta magica per indirizzare il cambiamento tecnologico verso la giustizia sociale. E’ invece proprio nel corpo della società, nei luoghi, che esistono esperienze, pratiche, movimenti, modi di fare impresa, esperimenti di politiche, di azioni collettive che sono fondamentali per soluzioni alternative. Il punto è che al momento non fanno sistema. La scommessa, la capacità sta per intero nel riannodare i fili di quelle pratiche, di quelle politiche che possano orientare il cambiamento nella direzione di una società più equa.
Se non ora quando?