Garrincha visse l’infanzia “in uno stato quasi selvaggio”, camminando a piedi scalzi, nuotando nei fiumi e dando la caccia ai passeri. Proprio quest’ultima attività determinò la nascita del suo soprannome; garrincha è infatti il termine con il quale nel Nordest del Brasile si identifica un piccolo uccello marrone con il dorso striato di nero. Rosa, la sorella più grande, ravvisò una somiglianza tra Manuel e il passerotto dovuta alle piccole dimensioni, e a quattro anni Garrincha era già noto a tutti con tale nomignolo.
Nei giorni scorsi hanno avuto eco mondiale ed entusiastici commenti i compleanni di due autentici mostri sacri del calcio: Pelè e Maradona.
Nella mia vita ho sempre parteggiato per i perdenti, il mio eroe preferito quando studiavo l’liade era Ettore, per questo intendo ricordare un altro genio del calcio, Manoel Francisco dos Santos : Garrincha.
Compivo dodici anni e la televisione italiana cinque quando, su uno schermo in cui il pulviscolo catodico annegava tutto in un grigio indistinto, apparvero i sacerdoti di un nuovo rito, il football brasiliano.
Didì, Vavà, Pelè, i loro nomi, quasi una filastrocca per bambini, una cantilena magica per evocare spiriti lontani e protettivi, ma per me su tutti uno: Garrincha.
Garrincha, nato in un territorio tra i più poveri e degradati, un corpo reso zoppo dalla poliomelite e sbilenco dalla denutrizione, un volto su cui la vita aveva segnato con largo anticipo rughe e solchi profondi, un’intelligenza primitiva, ma un sorriso candido, largo, gentile.
Garrincha: la velocità, un mulinare vorticoso delle gambe in un ritmo al quale era impossibile tenere dietro, un’accelerazione improvvisa, una progressione inarrestabile e la libertà di scrollarsi il marcatore dalle spalle, seminandolo per scacciare insieme con lui la fame, la povertà, il bisogno.
Garrincha: la finta, sempre la stessa, l’appoggio sulla gamba più corta, un rapido movimento di spalle e bacino, la palla che passa da un piede all’altro e via verso la rete avversaria, inebriato per quella magia ancora una volta riuscita, per l’applauso che consola l’abbandono infantile, l’assenza del padre, la poca attenzione di una madre sovraccarica di figli.
Garrincha: la geometria, sì la geometria euclidea in un uomo che a stento conosceva l’alfabeto e poco sapeva di aritmetica, ma la geometria era nella precisione e nel rigore dello scambio della palla, nel calcolo sicuro e preciso della parabola per trovare il compagno smarcato, nello scegliere sempre la traiettoria più breve per il lancio che fa fare goal. La geometria e la via rettilinea per liberarsi dal percorso lungo e tortuoso di una giovinezza sempre in bilico tra l’indigenza e la devianza, tra il bisogno e la strada illegale per soddisfarlo.
Garrincha: la luce, capace di illuminare con affondi improvvisi la monotonia dello scambio prolungato, di uscire palla al piede e da solo da un intricato groviglio di gambe e corpi. La luce, perché i suoi occhi bambini troppo a lungo erano stati feriti dall’ombra di lamiere contorte, da un orizzonte circoscritto dal confine della favela.
Garrincha: la generosità, mai un egoismo, mai una sterile , narcisistica tentazione di fare tutto da solo, ma sempre per gli altri, per il compagno in posizione migliore, per quello smarcato , per quello con più goal all’attivo. La generosità, perché è l’unica strada che vuoi praticare dopo aver litigato per un pezzo di pane e per un giaciglio al coperto in una notte di pioggia.
Garrincha: la dissipazione, mai una partita al risparmio, mai la gamba sottratta al contrasto, mai una rincorsa evitata, sempre al massimo, sempre dietro ad ogni avversario, sempre alla ricerca della palla, come chi sa di avere una vita breve e nell’intensità consuma tutte le esperienze.
Garrincha: smarrito dietro cantanti famose e squallidi postriboli , consumato da un alcool da pochi soldi in taverne malfamate, incanutito e indebolito da un’eccessiva familiarità con le droghe, i polmoni lacerati dal fumo, impoverito da bande di ipocriti e sordidi amici,, idolatrato da folle sterminate negli anni del successo e deriso, poi, su un carro carnevalesco da plebi ebbre e infoiate .
Garrincha, che muore solo e poverissimo.
Garrincha, non un maestro di vita, né un esempio da seguire o indicare, ma un uomo d’amare come si ama l’arte, un’utopia, un sogno di riscatto, un anelito di libertà, come si ama l’impossibile che cerchiamo di realizzare perché, come scriveva Majakovskij nel gelido inverno russo“ Se la questione del pane può essere rinviata, quella della primavera è sempre all’ordine del giorno”.
Domenico Moccia