di Ugo Balzametti
Decrescita per salvare il pianeta? Parliamone
Fra quarant’anni il mondo sarà abitato da circa 9 miliardi di persone e potrebbe raggiungere uno standard di benessere solo se il volume dell’economia planetaria fosse 15 volte quello attuale; se poi allunghiamo la proiezione alla fine del secolo avremmo bisogno di una crescita pari a 40 volte l’attuale.
Forse è fantascienza. Però i potenti del Pianeta affrontano l’emergenza ecologica seguendo sempre le stesse ricette impiegate due secoli fa: produrre beni industriali a spese dell’acqua, della terra e dell’aria, mentre il motore dell’industria – il petrolio- comincerà rapidamente a scarseggiare.
Di fronte alla catastrofe climatica molti esperti non credono più alla possibilità di conciliare la riduzione delle emissioni di CO2 con l’aumento del PIL. Secondo loro il clima non può essere stabilizzato senza ridurre in modo drastico il consumo globale di energia.
Attenzione però perché non si deve confondere l’attuale crisi economica, che sta investendo tutti i paesi del pianeta, con la decrescita.
Oggi serve un’economia pensata per un pianeta dalle risorse limitate, nella quale si possa avere prosperità senza crescita. Un ossimoro? Niente affatto: la contraddizione risiede semmai nel modello di oggi, che pretende lo sviluppo infinito dell’economia in un pianeta dove la popolazione cresce in modo esplosivo.
Il termine decrescita appare per la prima volta nel dibattito politico, economico e sociale nel 1977 quando il filosofo Andrè Gorz scrisse “ L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita ed il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre ad un miglioramento del benessere”.
E’ dalla fine degli anni Sessanta però che teorici, economisti come Ivan Illic, Andrè Gorz, Cornelius Castoriadis analizzavano in chiave critica il modello di sviluppo Occidentale.
Gorz era stato ispirato dal lavoro di Nicholas- Roegen, pioniere dell’economia ecologica, che per primo teorizzò come l’economia sia un sottoinsieme della biosfera.
Ne consegue che il sistema economico non può essere all’infinito poichè contenuto dentro un sistema finito.
Significative anticipazioni di tutto questo impegno di ricerca furono elaborate nel 1968 dal Club di Roma, poi riprese da Serge Latouche e da Maurizio Pallante.
Infatti all’alba del nuovo millennio tale dibattito fu polarizzato dagli scritti dello storico dell’economia Serge Latouche che teorizzò la necessità e l’urgenza di un “cambio di paradigma”. Nel 2007 Maurizio Pallante fondò un’associazione nazionale, pubblicò il libro “ Decrescita felice” in cui ne elaborò una definizione.
La decrescita non è un concetto ed è improprio parlare di ”di teoria della decrescita”, ma soprattutto non è un modello pronto per l’uso.
Quindi il termine decrescita è uno slogan provocatorio che permette di capire quale assurdità rappresenti una crescita infinita in un pianeta finito. Slogan dietro cui c’è il concetto di una società alternativa.
Esso è fondato su una triplice dimensione senza limiti: sia delle risorse naturali, sia della creazione dei bisogni, sia della produzione dei rifiuti. La crescita fine a se stessa diventa un obiettivo primario. Una società di questo tipo incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie, dispensa benessere illusorio e non offre alcun tipo di vita serena, nemmeno alle classi agiate.
La decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve, si propone di ridurre il consumo che non soddisfa alcun bisogno. E’ una rivoluzione finalizzata a instaurare rapporti umani che previlegino la collaborazione sulla competizione, a definire un sistema di valori in cui le relazione affettive prevalgano sul possesso di cose.
La tendenza delle persone a possedere cose sempre più modernizzate sono un ambitissimo territorio di conquista di ogni tipo di pubblicità, più o meno occulta, che diventa un pilastro della attuale società dei consumi. La necessità dell’accumulazione illimitata ormai è radicata nel nostro mondo, fa della crescita un circolo vizioso.
La decrescita sfugge a una definizione univoca, ma generalmente può essere definita come una radicale trasformazione, sociale, politica ed economica, associata ad una equa riduzione di utilizzo delle risorse naturali, con l’obiettivo di promuovere il benessere e la giustizia ecologica e sociale.
Su questo tema sono nati movimenti culturali alternativi, anti-consumistici ed ecologisti. Il lavoro di sensibilizzazione delle persone è far capire che non si tratta di rinunciare alla lavatrice, ma avere una lavatrice durevole, che non sia programmata per essere sostituita ogni cinque anni.
Dobbiamo rilevare che confondere la decrescita con la crisi economica è uno dei malintesi più comuni a cui molto spesso ricorrono i suoi detrattori. Anzi dal punto di vista economico sarebbe più corretto parlare di a-crescita invece di de-crescita per ribadire che dietro questa parola non c’è alcun intento involutivo.
Lavoro e decrescita
Un altro aspetto importantissimo da considerare nel progetto della decrescita è il lavoro. Questo è un aspetto cruciale e non di immediata comprensione se si rimane nella logica del mercato.
L’attacco più pesante che i critici portano al progetto di decrescita riguarda proprio il nodo dell’occupazione. Questo è un tema cruciale cui è necessario trovare una risposta credibile ed efficace.
Si evince che l’economia e la sua ancella, la politica, finiscono per escludere tutte quelle attività che sono “fuori mercato” ma che comunque ci permettono di avere una vita dignitosa: il lavoro domestico, di assistenza e di cura gratuiti, il lavoro dedicato all’autoriproduzione di beni e servizi utili a sè e alla collettività, il tempo dedicato alla formazione etc.
Alex Langer rifletteva come la prima esigenza di una famiglia è di avere di che vivere, obiettivo che oggi si raggiunge svolgendo un lavoro salariato. Ma lavoro salariato esige crescita e consumismo.
Il nodo centrale è che la ripartizione equa, tendente alla diminuzione complessiva del volume di lavoro retribuito, sia utile ai lavoratori per acquistare ciò di cui non possono fare a meno, e, soprattutto, avvenga senza perdita di reddito.
Ma un punto deve essere fermo: la decrescita non deve portare disoccupazione e più povertà, ma, al contrario, attività lavorative meglio distribuite e remunerate. Necessita quindi una progressiva diminuzione del lavoro pro-capite e l’incremento del tempo a disposizione per attività libere.
Per cui è fondamentale che “ la riduzione della durata del lavoro debba essere concepita non solo come una misura organizzativa, ma come una politica sostenuta da un’accurata visione d’insieme. Quindi come la via in direzione di una società diversa” ( Peter Gorz) Lavorare tutti lavorare dimeno.
Ormai inizia ad essere consistente il numero di cittadini che per garantire un futuro migliore alle generazioni successive accettano il senso del limite in quanto il Pianeta come abbiamo visto non dispone di risorse in modo illimitato. Molti si stanno convincendo della necessità di orientarsi verso forme economiche ispirate alla sobrietà. Che non significa ritorno alla candela ma liberarsi delle cose inutili e superflue.
Tutto questo ci dice che per raggiungere il traguardo della sostenibilità non basta passare dalle fonti fossili alle energie rinnovabili, continuando a sognare una crescita infinita. Dobbiamo accettare la diminuzione di produzione e consumi.
Un tarlo però s’annida nella mente delle persone e frena le scelte : se consumiamo di meno come può girare l’economia e che fine faranno i nostri posti di lavoro? Questa angoscia, questa ossessione nasce dalla consapevolezza che in sistema di mercato l’occupazione dipende dalla capacità delle imprese di vendere ciò che producono. Il lavoro non è più un mezzo ma è diventato un fine ossessivo che ci ha resi tutti paladini del consumo.
Non importa se siano prodotti inutili o utili (pane, plastica, biciclette o sandali), salutari o nocivi, non importa se siano ad alto o basso impatto ambientale, l’importante è comprare, il consumo come valore sociale. Mai fu inventato un sistema più folle e insicuro. L’unico modo per uscirne è andare oltre il lavoro salariato e orientarsi verso altre prospettive.
Per cui non ci dobbiamo chiedere come possiamo creare lavoro, ma come possiamo garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente, utilizzando meno risorse e producendo meno rifiuti.
Dobbiamo potenziare non solo il lavoro diretto che già viene praticato (l’educazione dei figli, l’accudimento degli anziani, la preparazione dei cibi etc) , ma estendere i rapporti anche all’esterno e non solo per scambi di oggetti, ma anche di servizi secondo la formula delle Banche del Tempo.
La crescita garantisce occupazione e benessere?
Ci avevano detto che nulla sarebbe stato come prima, ma la pandemia non sembra aver insegnato nulla “ai potenti della terra”, ai governi, ai banchieri, ai grandi gruppi industriali e finanziari.
L’ambiente e i beni comuni continuano ad essere terreno di sfruttamento; le grandi imprese multinazionali continuano a delocalizzare le produzioni, a precarizzare il lavoro ed ad evadere le tasse; i diritti delle persone, a partire dalle più vulnerabili continuano ad essere calpestati.
L‘equazione crescita economica uguale progresso, che ormai ci accompagna dal secondo dopoguerra, non è stata scalfita neanche dalla crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo. Così, nel corso dell’ultima riunione dell’OCSE, i ministri economici hanno ribadito come tutte le manovre di finanza pubblica di medio termine dovranno essere attuate in modo tale da non mettere a rischio la crescita economica.
Da qualche decennio l’economia ecologica, in polemica con la corrente economica più classica, sostiene che vi siano limiti ambientali alla crescita economica. Il duplice limite sull’uso delle risorse, da un lato, e sulla capacità di assorbire i rifiuti della produzione e del consumo dall’altro, sembrano di difficile superamento, soprattutto se si vuole garantire un futuro per i nostri figli.
La povertà è aumentata anche nei Paesi “ricchi”, grazie all’attacco al mondo del lavoro e alla scelta degli Stati di rinunziare al loro ruolo di garanti del compromesso tra capitale e lavoro. E’ aumentata la precarietà che va di pari passo con la compressione dei salari. La crisi climatica ha raggiunto un punto di non ritorno con eventi, sempre più frequenti, come la siccità, gli uragani, le inondazioni, che colpiscono soprattutto la povera gente.
Oggi il capitalismo mostra il drammatico fallimento delle promesse di benessere e felicità. Le disuguaglianze sono aumentate a livelli mai registrati nella storia recente, i conflitti sono aumentati; il blocco sovietico non esiste più, gli Stati Uniti hanno recuperato un ruolo centrale nel governo del mondo.
Contrariamente a quanto si sostiene, va evidenziato che questa crisi non è causata dagli essere umani, ma dal modello economico capitalista basato sulla crescita illimitata, che peraltro va a vantaggio solo di una piccola minoranza di ricchi.
Si stima che metà della ricchezza del mondo appartenga ad uno scarso 1% della popolazione: forti disuguaglianze, oltre ad essere indubbiamente ingiuste, tendono ad aumentare l’importanza dello stato sociale, determinando minore coesione sociale e senso di comunità.
L’idea dominante nelle nostre società è che la crescita e l’incremento dei consumi di energia siano essenziali per garantire reddito e occupazione, quindi il benessere. Tuttavia questa convinzione è sempre più contestata a livello scientifico.
Nessuno s’illuda: il problema ambientale non è circoscritto all’eccesso di CO2 e quindi ai cambiamenti climatici. La crisi è più profonda coinvolgendo al tempo stesso tutte le risorse e tutti i rifiuti. Circa le risorse la crisi ha il volto della scarsità, su quello dei rifiuti dell’accumulo.
I limiti del capitalismo
Anche a livello internazionale lo “sviluppo” è diventato la parola d’ordine con cui l’Occidente ( ovvero gli Stati Uniti, l’Europa) si è misurato con gli altri Paesi della Terra che non a caso sono individuati come “paesi in via di sviluppo”
Nell’Occidente ai poveri strutturali si è affiancata una realtà sociale che colpisce e penalizza sempre più anche le fasce deboli del ceto medio a cui, progressivamente viene esclusa ogni tipo di possibilità di ascesa sociale.
Naturalmente è giusto sottolineare gli enormi passi in avanti che si sono determinati nelle condizioni materiali di vita, specie negli anni che vanno dal 1945 al 1975, segnati dal raggiungimento di significative acquisizioni da parte del sindacato e della classe operaia in termini di diritti dentro i posti di lavoro e nella società.
Ma a partire dagli anni ‘80 è diventato sempre più evidente che la ricetta dello sviluppo non poteva essere estesa a tutti. I paesi ricchi hanno preso le loro contromisure e operato affinché la ricchezza e il benessere potessero coesistere sempre più a condizione che la dimensione degli esclusi dal banchetto della società dei consumi fosse sempre più ampia. Il sistema non consente a tutti di trovare un posto di lavoro. Una quota risulta eccedente, in esubero.
La filosofia del neoliberismo si fonda essenzialmente sulla competizione sistematica tra imprese, tra Stati, gli uomini e le donne sono valorizzati in quanto “capitale umano”, al pari della natura che diventa stock di risorse mercificate con l’obiettivo di valorizzare continuamente il capitale.
La logica del profitto, oggi resa ancor più pervasiva dalla globalizzazione, tende alla soppressione di tutti i limiti: il capitalismo, per sua peculiarità, persegue un modello economico infinito e il consumismo in larga parte del Pianeta è lo stile di vita dominante ed alimenta un degrado della società, mercifica i rapporti sociali e li inaridisce.
Del resto il capitalismo è un sistema il cui equilibrio è come quello di un ciclista, non può mai smettere di pedalare, perché in caso contrario cade a terra. Il capitalismo deve essere sempre in crescita, l’alternativa è il disastro.
Per gli economisti e i politici di ogni schieramento, la crescita è stata ed è, la stella polare da per-seguire. E’ stato un veicolo per creare posti di lavoro, e quindi per aumentare la prosperità nei Paesi Ricchi e riducendo la povertà e la fame in quelli più poveri.?
Agenzia europea: le risorse naturali non sono infinite
Il dogma della crescita, che da mezzo secolo ha impedito di adottare le misure politiche necessarie a ridurre la crisi economica, incomincia però ad incrinarsi.
Protagonista di questo importante risultato è stata l’Agenzia Europea dell’ambiente (EEA European Environment Agency) che nel 2021ha redatto un rapporto dal titolo “Crescita senza crescita economica” il cui carattere dirompente è stato misurato dal totale silenzio che gli hanno riservato i mezzi di informazione.
In questo rapporto si sostiene, per la prima volta da parte di un organismo pubblico e per di più internazionale, che “la crescita economica sia strettamente legata all’incremento della produzione, dei consumi e dello sfruttamento delle risorse e ha effetti deleteri sulla salute umana e sull’ambiente.”
La crescita infinita è stata vista per un lungo periodo come la panacea per tutti gli impellenti i problemi del mondo moderno: la povertà, la disoccupazione, la sovrappopolazione, il degrado ambientale. Dopo due secoli di crescita sostenuta, questi problemi non sono stati risolti, anzi si sono ampliati.
Secondo l’EEA è necessario “ ripensare cosa s’intende per crescita e progresso ” e si afferma che sono solo tre i percorsi possibili: il modello detto dell’economia della ciambella che è caratterizzato da un doppio vincolo sociale e ambientale; il modello della post-crescita dove il benessere delle persone non è correlato dall’aumento della crescita economica; la decrescita che mira alla diminuzione della domanda e dei consumi.
E’ maturata la consapevolezza che, nonostante la crescita del PIL , dei consumi e dei redditi, il benessere sociale si vada riducendo, colpendo sempre più ampi strati sociali anche delle nostre società “ricche” .
L’assurdo è che, mentre tutto ciò avviene, coloro che hanno contribuito meno alle attuali crisi del nostro Pianeta stanno subendo la maggior parte delle conseguenze, specie se riferite alla salute.
La politica ancella dell’economia
La crisi economica e finanziaria sta portando “i governanti del mondo” alla distruzione dello stato sociale e all’impoverimento delle classi lavoratrici, ma da nessuna parte si sentono voci di un ripensamento del “capitalismo selvaggio”, vero responsabile delle sorti del Pianeta.
A pesare sul presente e sul futuro del nostro Pianeta è stato il dominio incontrastato dell’economia sulla politica. Politica che ha abdicato al suo compito di pensare la società e migliorarla senza appiattirsi sulla presunta scientificità dell’economia.
La crisi che stiamo vivendo è il risultato degli ampi spazi e responsabilità che la politica ha lasciato al neo liberismo, fagocitando l’idea che l’unico modello economico e sociale sia quello capitalista.
Questo vuoto della politica è più evidente in quelle forze che per vocazione storica avrebbe dovuto battersi per un cambiamento dei rapporti sociali, dei rapporti di classe e quindi per un cambiamento radicale del sistema. E’ assurdo, oggi il capitalismo presenta contraddizioni drammatiche ma le critiche sono del tutto evanescenti o ci si limita a piccoli aggiustamenti o a qualche pennellata di verde.
La sconfitta della sinistra non è stata la sconfitta degli ideali di libertà, di uguaglianza, di cui si è fatta interprete per due secoli e mezzo, ma del modo in cui li ha interpretati e tradotti.
Un progetto politico alternativo
Mentre politica, giornali, tv sono sempre più ossessionati dalla mancanza di crescita economica , un pensiero diverso si sta diffondendo: l’dea che sia necessario ripensare la nostra società, in quanto sta portando “i padroni della globalizzazione” alla distruzione dello stato sociale e all’impoverimento delle classi lavoratrici.
E’ una trasformazione culturale che fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative. Non ritiene, per esempio, che la crescita della produzione di cibo che si butta, della benzina che si spreca nelle code automobilistiche, del consumo irrazionale di medicine, comporti una crescita, ma li considera segnali di malessere.
La decrescita non può non avere una connotazione di un sistema produttivo alternativo all’attuale. Le risorse sono limitate e devono servire per tutta l’umanità, quindi perseguire una crescita sregolata è un paradosso che ci porta all’autodistruzione.
A tale proposito si deve registrare come un altro tabù è caduto. E’ un fatto di portata storica: per la prima volta dal primo rapporto del 1990 il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) fa riferimento al concetto di decrescita.
Nel rapporto, presentato il 20 febbraio del 2022, il concetto di decrescita è esplicitamente menzionato quando si indicano scelte alternative alla crescita infinita
L’obbiettivo di fondo della decrescita è ristabilire un equilibrio fra l’uomo e le risorse naturali, per distribuirle in modo più equo e assicurarsi che si rinnovino rispettando il ciclo e i tempi della riproduzione.
Per questo la decrescita deve essere considerata come un vero e proprio progetto politico: il suo scopo è uscire dal paradigma dello sviluppo e costruire società conviviali autonome e sostenibili. Si tratta di una sfida ad utilizzare la creatività e le capacità umane, per crescere in qualità.
Ma che significa crescita qualitativa? Significa passare da un’economia dello scarto, dell’individualismo sfrenato a un’economia e una cultura di condivisione, solidarietà, inclusione. Cambiare gli obiettivi di fondo e le modalità di misura: il benessere delle persone e delle società è dato ad esempio dalla qualità della sanità, la diffusione dell’educazione, gli stili di vita. “Al fondo ci sono due aspetti: per essere inclusivi bisogna che tutti possano partecipare al processo di crescita; e che tutti possano goderne i frutti”.
L’ipotesi della decrescita, dopo aver trascorso decenni ai margini della politica, incomincia a non esser un tabù. Irrisa, quindi sconsigliata anche da famosi ecologisti, equiparata a recessione, fame, miseria oggi si sta riprendendo la sua rivincita, qualche breccia si sta aprendo nel pensiero economico dominante.
“Per poter passare ad un’economia inclusiva dobbiamo cambiare i modelli, il modo di pensare economia e società e quindi cambiare gli obiettivi: non più una crescita quantitativa ma qualitativa. La necessità di cambiare un’economia che uccide in un’economia della vita. Quindi cambiare un sistema complesso come l’economia mondiale. Non basta fare un semplice maquillage o qualche pennellata di verde , bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo”
Pensereste che questi siano concetti espressi da qualche accanito sostenitore della decrescita? Assolutamente no.
Queste sono parole di Anna Maria Tarantola, già al vertice della Banca d‘Italia, e di Papa Francesco in occasione di un convegno dell’ottobre scorso organizzato dalla fondazione Centesimus Annus pro Pontefice. Sono valutazioni che possono aiutare a rendere più concreto il percorso di sensibilizzazione delle persone.
Siamo consapevoli quanto sia difficile modificare modelli di vita consolidati nel tempo. Ancor più consapevoli è difficile scalare la montagna di un sistema economico e produttivo che vive solo per il profitto a vantaggio di pochi.
C’è ancora molto da fare, ma i muri pian piano stanno cadendo.
Che la “felice utopia” possa diventare realtà? Molto dipende da noi!