di Ugo Balzametti
Due popoli …la stessa lingua
Le guerre sono state e sono sempre terribili, ma questa guerra “civile” tra Russia e Ucraina è ancora più tragica perché i due eserciti parlano la stessa lingua. E’ una guerra iniziata in una fase di crisi globale del pianeta: le crisi economiche, sociali, sanitarie si sono intrecciate tra di loro e la crisi militare attuale le ricollega tutte.
I costi umani dei conflitti armati sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi essere superficiali, ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche divorano energia ed emettono carbonio, riscaldano il clima, condannano le persone anche oltre e dopo la fase della guerra. La guerra non solo inquina ma contamina, trasforma, rade al suolo, fa perder la ragione che alimenta l’odio per il nemico fratello, insomma il destino della Terra è nelle mani delle armi.
Non bisogna dimenticare che, anche in tempo di pace, il sistema militare è tra le principali cause del degrado ambientale. La produzione di armamenti è infatti tra i settori che consuma una quantità enorme di energia, dovendosi avvalere di trattamenti termici di leghe metalliche particolarmente resistenti.
Il peggio forse lo dobbiamo ancora vedere, poiché l’esperienza sedimentata in secoli di guerra ci dice che ogni conflitto bellico comporta esodi biblici, ed è anche un duro colpo alla ricchezza della natura. La guerra in Ucraina in questo senso non fa eccezione perché è un territorio già fortemente inquinato. La dura realtà ci dice che ogni conflitto bellico produce anche un disastro ambientale.
Gran parte dei combattimenti si stanno svolgendo in aree urbane, Kiev, Kharkiv, Mariupol, dove stabilimenti industriali, installazioni militari e depositi di rifiuti radioattivi sono finiti sotto il fuoco degli aerei e dell’artiglieria russa.
Bombardare, minare, inquinare terreni agricoli, mari, falde, boschi, produce carestie e fame, obbliga intere popolazioni ad abbandonare i luoghi in cui vivevano, a migrare verso luoghi in cui sopravvivere. E’ chiaro che la guerra fa male direttamente anche ai sistemi naturali che sono la principale fonte di sostentamento per tutte le specie viventi, compresi gli umani.
Pensiamo che la guerra sia sempre sbagliata e lo è ancor di più quando rischia di farci fare grandi passi indietro nella lotta al cambiamento climatico. Come è possibile non capire che il nostro sistema di produzione va rivisto radicalmente oggi e non domani, e che non è buona politica quella che continua a sprecare risorse pensando che siano inesauribili, e costruire un modo di vita effimero ed opulento?. Da anni viviamo una normalità che non è normalità, passando da una crisi all’altra che noi stessi generiamo: è la crisi di chi non vuol cambiare.
Quale connessione tra guerra e ambiente?
Se prendiamo in esame il significato delle parole “ambiente” e “guerra”, si può avere l’impressione che non abbiano alcuna contiguità, che vengano da due mondi lontani: la prima evoca immagini di vita spensierata, di benessere, di vacanza; la seconda si lega a pensieri di distruzione, all’inquinamento, ai disastri naturali. Di sicuro non è immediata l’associazione di ordigni, missili, morte, devastazione con inquinamento atmosferico e delle acque. Apparentemente sembrano due cose diverse.
Basterebbe fermarsi a riflettere per scoprire che esistono molteplici e complesse connessioni tra ambiente e guerra, anche se raramente traspaiono in pubblico o nei dibattiti politici in materia.
Lo stesso succede quando si analizzano gli impatti delle attività antropiche sui sistemi naturali, difficilmente si prende in considerazione la realtà militare e bellica, ma si focalizza l’attenzione principalmente sulla realtà civile e sociale.
Nel disegnare la mappa delle connessioni tra ambiente e guerra si può partire da un aspetto relativamente conosciuto come quella delle guerre per le risorse naturali.
L’uomo da sempre ha fatto ricorso, per vivere e sviluppare la propria civiltà, alle risorse offerte dal nostro Pianeta: risorse gratuite, che richiedono determinati tempi naturali per rigenerarsi ed essere di nuovo disponibili. E’ il caso del petrolio, delle risorse minerarie o del legname.
L’impatto ambientale delle guerre inizia molto prima che si inizi a sparare, e continua oltre l’ultimo colpo. Organizzare e sostenere un esercito comporta il consumo di una grande quantità di risorse che potrebbero riguardare metalli comuni o elementi di terre rare, acqua o idrocarburi. Mantenere una forza militare significa addestramento e l’addestramento consuma risorse. Veicoli militari, navi, aerei, edifici, infrastrutture richiedono tutti energia che il più delle volte è petrolio. Le emissioni di CO2 spesso sono maggiori di molti paesi messi insieme.
E’ interessante soffermarci sulle “terre rare” che sono 17 minerali quasi sconosciuti, presenti in proporzioni spesso esigue e di difficile e costosa estrazione: dall’ittrio, allo scandio, al cerio, al promezio etc . Sono risorse di fondamentale importanza per l’uso che ne viene fatto nelle nuove tecnologie, e per le tante possibili applicazioni che si possono realizzare: dagli schermi Led ai sistemi d’armamento degli automezzi militari..
Oggi la geopolitica delle terre rare è diventata elemento fondamentale per il dominio del mondo. La Cina gode di una posizione preminente, controllando quote di produzione che vanno oltre il 50% per i minerali rari, ed oltre il 95% per le terre rare.
Un secondo ambito di relazione tra ambiente e conflitti, di cui si parla molto poco, è quello delle modificazioni dei fenomeni naturali per scopi militari.
Con il termine “ geo-ingegneria” si fa riferimento ad interventi dell’uomo, volti a manipolare l’ambiente e i processi naturali per ottenere certi effetti desiderati. Il settore militare non solo inquina, ma contamina anche il suolo dove opera.
Durante la guerra del Vietnam furono applicati studi di geo-ingegneria per scopi bellici: l’aviazione americana realizzò un progetto chiamato “inseminazione delle nuvole” (cluod seeding) diffondendo nei cieli vietnamiti sostanze chimiche che reagissero da condensatori per la formazione di nubi, allo scopo di sollecitare forti precipitazioni sul territorio nemico.
Vi è un altro aspetto da considerare: si tratta degli impatti delle attività militari sui sistemi naturali, che intervengono durante il conflitto , ma già dalla fase di addestramento e preparazione, fino al periodo post-bellico.
Tutti gli eserciti al mondo provocano anche danni diretti all’ambiente. Quando due eserciti organizzati si confrontano e l’obiettivo sul campo è quello di distruggersi a vicenda, la vita di qualsiasi organismo vivente è a rischio.
Ad esempio nella guerra vietnamita lo studioso Nils Gledistsch ha stimato che furono impiegati 96.000 tonnellate di gas nervino che uccisero non solo uomini, ma anche animali e risorse naturali.. L’esercito americano utilizzò più di 20 milioni di galloni di erbicidi per defogliare le foreste e stanare il nemico. Provocarono 400.000 morti e 500.000 bambini nati con malformazioni; si persero circa 120 specie di uccelli e 40 specie di mammiferi. Le foreste non sono più ricresciute.
Le conseguenze delle attività militari
In generale le armi e l’uso dei mezzi militari, progettati per essere veloci e resistenti, causano inquinamento atmosferico e producono polveri tossiche. Se un carro armato tipo l’M1 Abrams viene definito“ succhiabenzina” e gli aerei caccia possono arrivare a consumare anche 16.000 litri di carburante all’ora, è facile comprendere come sia possibile che durante l’operazione Desert Storm (1991) siano state rilasciate ogni giorno in atmosfera 112.400 tonnellate di CO2, pari alle emissioni annuali di 20.800 cittadini italiani.
Anche le esercitazioni militari con fuoco vivo portano all’accumulo di sostanze inquinanti: il fosforo bianco, ad esempio, è stato associato alla mortalità di uccelli acquatici e all’avvelenamento di rapaci, o allo spiaggiamento di massa di balene, l’inquinamento delle risorse idriche, la devastazione dei raccolti, l’uccisione degli animali e la deforestazione.
Per preparare le guerre, per fare esercitazioni a terra o in mare o nei cieli vengono utilizzati fino a 15 milioni di km2 di superfici (più dell’intero territorio dell’Europa) e il 6% del consumo di materie prime, producendo circa il 10% delle emissioni globali di carbonio l’anno. In Italia una delle zone più interessate da servitù militari è la Sardegna, alla quale lo Stato italiano sottrae circa il 60% dell’intero territorio statale per destinarlo ad attività militari.
Tra i fattori di impatto ambientale delle attività belliche, oltre alla diretta contaminazione dei territori, va tenuto conto anche del consumo di suolo: il terreno destinato alla presenza militare viene sottratto ad altre attività e può contribuire alla cementificazione del territorio, con la perdita irreversibile, nella maggioranza dei casi, di suolo fertile. Le costruzioni provocano la frammentazione del territorio, emissione di CO2, alterazione del ciclo idrologico e modificazioni micro-climatiche.
Infine, anche dopo la conclusione di una guerra, rifiuti tossici e materiali di scarto possono rimanere a lungo disseminati nel territorio, causando un aggiuntivo inquinamento del suolo e della falde acquifere, e compromettendo gli equilibri ecologici di interi ecosistemi.
Allo stesso modo mine antiuomo e altri residuati bellici esplosivi sono una eredità pericolosa non solo per coloro che vivono in territori post-bellici, ma anche per il territorio stesso, soggetto ad ulteriori rischi di inquinamento. Ad esempio la contaminazione da petrolio nell’Oceano Atlantico, nella seconda guerre mondiale, è stata stimata, dallo studioso Michael, in oltre 15 milioni di tonnellate, ed ancora oggi se ne possono trovare traccia.
Purtroppo gli interessi militari e l’impatto sull’ambiente sono due mondi tenuti debitamente a distanza come è avvenuto a Glasgow, eppure alcuni istituti di ricerca, soprattutto indipendenti, hanno evidenziato da tempo come una guerra, o anche prepararla, sia un affare “sporco” perché altamente inquinante e molto poco green.
Il Rapporto CEOBS
Non è un caso che solo nel marzo 2022 due ong, associazioni indipendenti e benefiche, la Scientific for global Responsabiliy (SGR) e la Conflict and Environment Observatpry (CEOBS), hanno redatto un Report che analizzava, con dovizia di dati, le conseguenze ambientali dei conflitti armati e delle attività militari, nonché dati sulle spese militari di singoli stati.
“Gli effetti delle guerre sull’ambiente vengono troppo spesso trascurati. Non può esistere una pace duratura se vengono distrutte le risorse naturali sui quali si basano i mezzi di sussistenza della popolazione”-
Ma è doveroso sottolineare che, già nel lontano 2002, due scienziati della Durham University e della Lancaster University, in perfetta solitudine, avevano analizzato. l’operato dell’esercito USA come uno dei maggiori inquinatori climatici della storia e grande consumatore di petrolio e principale emittore di gas serra e di CO2.
Nel rapporto si parlava di “attività militari che mettono a dura prova l’ambiente”. Ma la sorpresa più grande per i due scienziati fu che “le conclusioni cui erano pervenuti, circa il degrado ambientale, non avevano ricevuto la opportuna attenzione”.
Nel marzo scorso, a Ginevra si è tenuta la Conferenza mondiale sulla biodiversità ( la varietà di organismi viventi, nelle loro diverse forme e nei rispettivi ecosistemi); si è discusso della protezione di foreste, pesca, agricoltura, suolo. Parlarne in questi giorni di guerra è più importante che mai. E’ da qui che passano le premesse per una pace duratura.
Mentre le TV, i giornali, i vari social ci aggiornano compulsivamente su una guerra atroce e i suoi mandanti folli, mentre tutto il mondo si riarma fino ai denti e cercano di convincerci che sia giusto così, mentre i prezzi della benzina, gas, grano, petrolio schizzano verso l’alto, a Ginevra si è svolto questo importante appuntamento con centinaia di delegati da tutto il mondo.
Ma di questo appuntamento sui giornali, sui media non c’è stata traccia, nessuno ne ha parlato, anzi al contrario il nostro ministro dello sviluppo economico ha mandato a dire che la transizione ecologica non si potrà attuare nei modi e nei tempi che erano stati stabiliti a Glasgow.
Neppure il Covid19, che avrebbe dovuto ri-dare centralità al concetto di cura, della salute e dell’ambiente, ha modificato gli equilibri in campo. Sarebbe stato utile riflettere sulle scelte fatte e sugli effetti prodotti da una economia basata solo sul profitto e sullo rapina sistematica delle risorse naturali. Anzi la pandemia si è rilevata un’occasione per aumentare la pervasività delle forze militari in tutti gli aspetti della vita sociale ed economica. La pandemia è stata militarizzata.
Secondo il rapporto CEOBS, circa la dimensione ambientale dei conflitti armati, il 18,1% è imputabile alla logistica, mentre ben il 68%, sono emissione indirette, derivanti dalla catena di approvvigionamento e dall’industria militare.
L’impatto ambientale dei conflitti varia notevolmente. Alcuni conflitti armati possono essere brevi ma altamente distruttivi, mentre alcune guerre possono durare anni ma combattute a bassa intensità. I conflitti ad alta intensità richiedono e consumano grandi quantità di carburante, portando a massicce emissioni di CO2 e incidono pesantemente al cambiamento climatico.
L’attività militare è… segretata
Spesso si pensa che siano solo le armi nucleari e chimiche ad essere estremamente pericolose e creare problemi ambientali. Ma lo stesso vale anche per le armi convenzionali, in particolare quando vengono eliminate mediante combustione a cielo aperto.
Molte armi convenzionali hanno componenti tossici, altre come l’uranio impoverito sono radioattive. Oppure può essere adottata la “tecnica della terra bruciata” che prevede la distruzione di infrastrutture agricole come canali, pozzi e alla distruzione di raccolti per forzare la popolazione alla resa; si pensi alla pratica del gas flaring, l’incendio di combustibili fossili, con il quale gli eserciti si assicurano che le risorse siano inutilizzabili e quindi non possono essere usate dal nemico e lo costringono alla fame.
L’uso dei mezzi di trasporto di armi e militari, il loro sostentamento (riferimento a cibo, carburanti, riscaldamento) sono solo i primi elementi che condizionano l’ambiente. Il rapporto CEOBS analizza a fondo lo “stress” causato dalle attività militari sull’ambiente: inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua in tempo di pace; gli effetti immediati e a lungo termine dei conflitti armati, militarizzazione esterna l’uso del suolo, lo sviluppo e la produzioni di armi nucleari.
Nell’ambito delle attività militari, fra le più energivore del pianeta, il complesso militar-industriale americano, ovvero il Pentagono, è ovviamente l’imputato principale. E’ il maggiore consumatore di petrolio al mondo, ed è il principale produttore di gas serra al mondo con oltre il 5% del totale. Ma la percentuale sarebbe più alta se si comprendessero i costi energetici di produzioni di armi, il consumo dei combustibili fossili.
Tuttavia ancora oggi le emissioni legate ai conflitti e al settore militare, non figurano negli obbiettivi di riduzione decise nelle sedi Istituzionali, e la Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici prevede che non vengano conteggiate, rendendo difficile misurarne le conseguenze climatiche e ambientali Il settore militare, nel concreto, viene sottoposto a particolari misure di sicurezza configurandosi, quindi, come un ambito praticamente secretato.
Questa scelta fu fatta con il protocollo di Kyoto del 1997 grazie ad una azione di lobby degli USA che non è stata più messa in discussione nei successivi appuntamenti. Solo l’accordo di Parigi nel 2015 ha aperto uno spiraglio lasciando il taglio delle emissioni militari di gas serra alla discrezione dei singoli paesi. Magra consolazione .
A partire dai pochi ed incerti dati a disposizione, il Rapporto ha stimato che la carbon footprint (parametro che misura la quantità di gas ad effetto serra rilasciata da un prodotto o da attività di natura umana) relativa alle spese militari europee nel 2019 è stata di circa 24,8 milioni di tonnellate di CO2, che può essere paragonata alle emissioni annuali di 14 milioni di automobili.
La guerra è un grande “business”
Nonostante le sollecitazioni di tante organismi indipendenti, i dati sulla spesa mondiale per l’acquisto di armi non ci inducono all’ottimismo, dato che si è passati dai 1,754 miliardi del 2009 ai 1.960 miliardi nel 2020 (era l’anno della pandemia). A spendere di più sono stati gli USA, seguiti dalla Cina: i primi con 778 miliardi di dollari, la seconda con 252 miliardi di dollari. Poi vengono l’India con 72,9 miliardi, la Russia con 61, 7 miliardi.
Il Dipartimento della Difesa americano è il più grande consumatore di combustibili fossili al mondo. Nel 2019 da solo ha prodotto quasi 60 milioni di tonnellate di CO2. Se fosse un Paese si collocherebbe al 47 posto prima di Perù e Portogallo.
Per quanto riguarda l’Europa il conflitto in corso tra Russia e Ucraina ha il triste pregio di evidenziare le contraddizioni che vivono al suo interno. L’Europa fa proclami per la pace, il rispetto dell’ambiente mentre incrementa drasticamente le spese militari senza minimamente interrogarsi sui risvolti tragici per l’ambiente.
La sicurezza in questo momento è la priorità, ma lo stesso Parlamento Europeo aveva già evidenziato l’inefficacia della soluzione militare a garanzia della difesa. A fronte di un aumento del 9,3% della spesa militare mondiale negli ultimi 10 anni, il tasso di conflittualità è salito del 6,5%, e quello della sicurezza è sceso del 2,5%.
Pur tuttavia molti paesi dell’UE hanno portato il loro budget militare al 2%, la loro spesa militare passerà a 104 milioni di euro al giorno, quasi il doppio di prima.
Un ultimo aspetto da sottolineare: il bilancio dell’UE cresce con le guerre, forse per questo il settore bellico sembra godere di specifiche tutele malgrado la sua dubbia sostenibilità etica e ambientale.
Negli anni l’industria bellica europea, soprattutto in paesi come l’Italia e la Francia, ha realizzato un doppio business: da un lato ha guadagnato dall’export di armi verso paesi terzi, soprattutto mediorientali e nordafricani; dall’altra ha beneficiato dell’incremento degli investimenti per il controllo dei confini europei.
L’Italia vende armi a tutti: un giro di affari nell’ordine del valore di 9-10 miliardi di dollari l’anno. La legge di bilancio 2022 sfonda il muro dei 25 miliardi per la Difesa, un incremento del 3,4% sul 2021 e circa il 20% negli ultimi tre anni. Inoltre pesano piani militari che hanno preso la forma di 23 nuovi programmi per un totale di altri 12 miliardi. Parliamo di circa 38 miliardi, 104 milioni di euro al giorno.
Che dire inoltre del ministro della Difesa Guerini che, nella direttiva della politica industriale, sottolinea l’importanza dell’industria militare e come questa deve essere sostenuta e ampliata, mettendo in atto una sorta di “operazione propaganda”, senza dire però che tale settore pesa meno dell’1% in termini di Pil, meno dell’0,7 in termini di export, meno dello 0,5% in termini di occupati.
Nel 2019 le vendite delle 25 maggiori aziende nel mondo produttrici di armi hanno raggiunto, in piena pandemia, una cifra stimata di 361 miliardi di dollari, con un aumento dell’8,5 rispetto al 2018.
Un altro fronte caldo è quello della Tassonomia, ovvero la classificazione europea delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili dal punto di vista ambientale. A dicembre Leonardo, il colosso italiano della difesa e dell’aerospazio, ha chiesto alla Commissione europea di considerare il settore della difesa come ‘sostenibile’. Negli ambiti UE, infatti, l’intenzione è di inserire dopo il nucleare, anche la produzione di armi nell’elenco delle attività green.
Per… una economia di pace
Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, qualche giorno fa, commentando l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ha denunciato come il ricorso alle fonti fossili e l’attuale mix energetico sia fallimentare, esponendoci al rischio di shock geopolitici. “La rinuncia degli Stati ad una leadership climatica è criminale. Ogni ulteriore ritardo significa morte. I grandi inquinatori del mondo sono colpevoli di aver incendiato la nostra unica casa,. Ovunque c’ò gente arrabbiata, lo sono anch’io. Ogni frazione di grado conta, ogni voce può fare la differenza. Ogni secondo conta”.
L’America ha già fatto sapere, tramite il suo Presidente, che l’obiettivo dell’azzeramento del gas serra nel 2050 non potrà essere raggiunto e nel contempo è ripresa la produzione a pieno ritmo di minerali fossile utile per l’industria militare.
L’Europa si sta riarmando sotto le sollecitazioni della Nato (ovvero degli Usa). Dal 2019 la spesa è cresciuta del 4% nonostante la pandemia; i paesi membri della Nato sono tra i maggiori acquirenti di armi con più di 1103 miliardi, circa il 56% della spesa globale. L’Italia che ripudia la guerra è al quinto posto in Europa per spesa di armi.
Di conseguenza la strada intrapresa è quella dell’ebrezza della guerra, dove il risultato finale è la distruzione e l’autodistruzione. E mentre la parola pace è sempre più una bestemmia nel fragore delle armi, sollevando odiosi rimbrotti per “anime belle”, persino il più autorevole tra gli opinion leader globali, papa Francesco, è stato oscurato, inserito nella lista degli inaffidabili. Quanta ipocrisia e opportunismo quello praticato dai mezzi di informazione, carta stampata e TV.!
Al contrario costruire un’economia di pace significa tagliare ii fondi per l’acquisto di armi, per investirli in vaccini, nell’istruzione, nella lotta alle disuguaglianze, per affrontare il collasso climatico, per i rifugiati. Investimenti per la vita e non per strumenti di morte..
Ne consegue una riflessione che facciamo oggi e che non facevamo ieri. Oggi è irricevibile qualunque tipo di proposta politica che non sia in grado di capire che il nostro sistema di produzione va rivisto radicalmente e non si può continuare a sprecare risorse e costruire intorno a noi un modo di vivere che dipenda da quanto siamo abili a prendere le risorse altrui.
Fino a qualche tempo fa sembrava che un’altra guerra, vicino casa, non potesse mai prendere forma, ora invece ci troviamo a testimoniare la potenza distruttiva causata dagli eserciti. Quali saranno le conseguenze ambientali della guerra tra Russia e Ucraina?