di Ugo Balzametti
La questione salariale in Italia
Nell’Italia stretta nella morsa dell’inflazione, della crisi economica e di quella climatico-ambientale, si è discusso ai tavoli istituzionali di salario minimo legale. Finalmente il confronto su questo tema ha varcato la ristretta cerchia degli addetti ai lavori e si è imposta all’attenzione dei mass media e quindi dell’opinione pubblica. L’approssimazione e la superficialità con cui talora è stata trattata la questione, spesso osservata con le lenti deformate dell’appartenenza ad uno o all’altro schieramento politico, impone una riflessione serena e possibilmente scevra da pregiudizi o preconcetti ideologici.
La questione salariale è ormai riconosciuta come tale da tutti gli attori istituzionali italiani ed europei. Si tratta di un tema che s’intreccia con il contrasto alle forme di povertà: povertà vecchie e nuove, quali sono le condizioni di povertà , ad esempio,in cui versa un segmento di lavoratori, poveri pur essendo occupati. Il fenomeno della povertà rimanda al problema dei bassi livelli salariali tali da provocare un allarme sociale, oltre che economico.
Il tema è complesso e coinvolge le diverse nature dei mercati del lavoro e soprattutto le relazioni industriali nei vari Paesi europei. E’ anche tema carsico, appare e scompare dal dibattito politico.
Negli ultimi due anni i salari italiani hanno perso circa il 15% del loro potere d’acquisto. Colpa dell’inflazione ma anche di un mercato del lavoro sempre più sprofondato nella precarietà. Il carovita è venuto con la guerra in Ucraina, con il caro energia e con la frantumazione delle catene di produzione, cioè con fattori esogeni al nostro sistema produttivo. Si è andato a sommare ad una ventennale stagnazione dei salari e si è inserito in un depauperamento del sistema industriale e produttivo italiano, tanto che oggi il 75% degli occupati è impiegato in servizi a basso contenuto tecnologico, bassi investimenti e quindi scarsa retribuzione e diritti sindacali via via calpestati.
E’ sotto gli occhi di tutti il fatto che la lunga crisi economica ed alcuni fattori strutturali, quali la globalizzazione, terziarizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi, abbiano in questi anni profondamente peggiorato le condizioni di larghe fasce di lavoratrici e lavoratori, in particolare giovani e donne..
Il fenomeno del lavoro povero ha interessato già nel 2015 oltre 3 milioni di individui ed ha posto 2,2 milioni di famiglie in condizioni di rischio povertà, nonostante almeno un componente del nucleo familiare risulti occupato. La questione sociale in Italia sta nel fatto che è povero non solo chi è disoccupato- o occupato per periodo brevi ovvero ad orari forzatamente ridotti, ma talora è precaria, sottopagata, al nero anche chi lavora a tempo pieno.
Ma cos’è il salario minimo? Il salario minimo è quella soglia della retribuzione, fissata per legge, sotto la quale non si può andare. In genere è determinato in misura uguale per tutte le categorie e non tiene conto del “valore” di ogni singolo lavoro. Diciamo che può essere considerato come un salario di dignità e prevale sulla contrattazione qualora questa preveda un salario inferiore. In genere corrisponde a circa la metà del salario mediano e va dai circa 6,7 euro/ora della Spagna, ai 12 della Germania fino ai 13 euro/ora del Lussemburgo.
La principale ragione per introdurre un salario minimo risiede nella necessità di ridurre il potere di mercato dei datori di lavoro. Quest’ultimi spesso possono permettersi di stabilire livelli salariali a livelli più bassi di quelli prevalenti perché i lavoratori non possono agevolmente cambiare lavoro. Questa posizione di potere è spesso più forte nei confronti delle lavoratrici.
In un mercato del lavoro a regime di monopsonio (ossia in un mercato con un solo acquirente, a fronte di una vasta offerta), vengono imposti salari sempre più bassi e queste aziende sopravvivono a discapito di quelle più sane.
Come ha spiegato l’economista Arindrajit Dube, uno dei massimi esperti al mondo di salari minimi, lo scopo principale dell’introduzione di un salario minimo è quello di dare sostegno ai lavoratori che vivono con una paga non idonea per fare una vita dignitosa, per raggiungere una maggiore equità e contrastare le disuguaglianze sociali
Chi ha paura del salario minimo? Sicuramente il governo italiano, nonostante che questa volta ce lo “consiglia” anche l’EU, visto che lo scorso autunno un’importante direttiva in materia è stata approvata e attende di essere recepita entro novembre 2024. L’attuale governo italiano di destra finge aperture con le parti sociali, rimandando la patata bollente al CNEL, che il 12 ottobre ha presentato una sua proposta. Il documento finale, approvato a maggioranza dall’Assemblea del CNEL, ha respinto l’ipotesi di introdurre anche in Italia il salario minimo.
Salari minimi orari ormai esistono in quasi tutti i paesi dell’Unione europea; in Paesi come la Francia sono in essere da 50 anni. La grande esperienza accumulata in questi anni ci dice che gli interrogativi più rilevanti non riguardano l’introduzione dei salari minimi, ma il livello a cui questi minimi vengono fissati. E’ una scelta complessa che deve tener conto di diversi fattori e necessariamente fondarsi su una analisi approfondita di dati individuali, riguardanti in particolare il 10% dei lavoratori con trattamento salariale più basso.
Tra gli Stati membri dell’Unione solo l’Italia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia non hanno un salario minimo, tutti gli altri 21 paesi hanno introdotto una soglia salariale, a secondo del costo della vita e dell’andamento economico nazionali. I livelli quindi variano a seconda che ci si trovi in Lussemburgo o in Bulgaria o in Romania. Per reagire all’inflazione e alle crisi economiche che hanno investito l’Eu i governi dei vari Paesi hanno più volte aumentato il salario minimo e dal 2013 al 2023 in alcuni Stati è praticamente raddoppiato, mentre in altri la crescita è stata inferiore a fronte di una soglia minima già elevata.
Di fronte a questa situazione di vero e proprio allarme sociale, il legislatore è rimasto per tanto tempo del tutto inerte, o peggio ancora ha varato misure tese soltanto a rendere più flessibile un mercato del lavoro già fortemente segmentato, contribuendo così a ridurre molti lavoratori in una condizione quasi servile, tale da renderli più indifesi ed esposti al ricatto dei bassi salari, pur di mantenere il posto di lavoro.
Una buona parte degli occupati guadagna meno che in passato e vive in una condizione di estrema precarietà, e non traggono dalla loro attività quanto sarebbe necessario per garantire, a loro ed alle famiglie, quell’esistenza libera e dignitosa che la Costituente aveva solennemente promesso con l’art.36 della Carta.
Sulla spinta delle riforme del mercato del lavoro approvate dai governi di centrodestra e di centrosinistra, i salari reali in Italia sono calati del 2,9%, mentre in Germania e in Francia aumentavano di circa il 30,5% (dati Ocse).
La povertà colpisce un numero sempre più grande di lavoratori: i working poor, coloro che nonostante un regolare contratto non riescono ad uscire dalla povertà, rappresentano l’11,8% dei lavoratori italiani secondo Eurostat. Tenendo conto della continuità lavorativa il lavoro standard (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti a tempo pieno ) riguarda poco meno del 60% del totale degli occupati nel 2022, contro il 65% nel 2000.
La stessa contrattazione collettiva si è dimostrata del tutto inadeguata a contrastare il fenomeno, pur registrando in Italia un grado di copertura più alto della media europea, Ciò è avvenuto perché il sistema di contrattazione collettiva non possiede efficacia erga omnes, con la conseguenza che sempre più forte è la spinta al dumping salariale tra le imprese, mediante la sottoscrizioni di contratti stipulati da organizzazioni di dubbia rappresentatività e che prevedono livelli salariali molto bassi.
La tendenza incontrollata del moltiplicarsi dei contratti collettivi è legata alla sfrenata patologia di avere dei contratti ad hoc che finiscono con lo scivolare nella contrattazione pirata, accentuando la crisi di rappresentatività che investe sia il sindacato sia le imprese.
D’altra parte i lavoratori a termine, i cosiddetti precari, sono ormai un aspetto strutturale: in termini assoluti il loro numero è ormai stabilito sopra i 3 milioni, dopo aver raggiunto il massimo storico nel marzo 2022 (tre milioni 175 mila contratti a termine, fonte Istat). Per quanto riguarda i giovani, sono sempre più quelli che emigrano (la mobilità giovanile è quasi raddoppiata negli ultimi 15 anni secondo la fondazione Migrantes).
Anche il fenomeno del part time è profondamente cambiato sia numericamente (12% degli occupati a inizio 2000; 18,2% nel 2022) sia per le sue modalità: il part time involontario (cioè non scelto dal lavoratore) è circa il 56% del totale del part time nel 2022 che dal 2000 ad oggi è raddoppiata Questa quota di non libera scelta del lavoratore risponde solo alla flessibilità organizzativa dell’impresa, rientrando a pieno nelle caratteristiche di lavoro non standard.
Dal 2020 il 20,1% delle persone vivono in famiglie a rischio povertà (quasi 12 milioni di persone). La quota si abbassa all’11,4% per coloro che hanno una occupazione dipendente. Questi dati si prestano ad una doppia lettura: il lavoro svolge ancora un’azione positiva sulle condizioni di uomini e di donne relegando circa 2,4 milioni di lavoratori dipendenti a rischio povertà? Il lavoro precario attenua questa funzione?
Il lavoro inteso come strumento di emancipazione e di dignità della persona, viene travolto dalla cultura neoliberista. Lo smantellamento dei diritti e la riduzione dei salari è stato presentato come una scelta i libertà. Il posto fisso era sinonimo di schiavitù, meglio che il lavoratore “diventi imprenditore di se stesso”. Sta di fatto che l’Italia è l’unico paese dell’Europa che abbia visto diminuire i salari reali per tutti i lavoratori
Davanti ad un quadro così desolante fatto di precarietà e povertà, come potrebbe peggiorare la situazione l’introduzione del salario minimo? Le ricerche economiche realizzate negli ultimi anni ci dicono che piuttosto è vero il contrario. Gli economisti David Card e Alan Krueger hanno dimostrato come l’aumento del 20% nel salario minimo nell’industria (da 4,25 a 5,05 dollari/ora) non ha portato ad una riduzione dell’occupazione.
Nell’ordinamento italiano, come abbiamo visto, non esiste un livello minimo di retribuzione fissato per legge, ma l’articolo 36 della Costituzione riconosce il diritto, per il lavoratore, ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Il richiamo all’articolo 36 va letto unitamente all’articolo 39 della Costituzione che attribuisce ai sindacati, previa registrazione, il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro vincolante per tutti i lavoratori appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce (erga omnes). La norma è chiarissima “ il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del su lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” La disposizione vale soprattutto per gli imprenditori. Ma vale anche per il sindacato che deve ispirarsi all’art.36 stabilendo i minimi retributivi.
Come si può comprendere la questione salario minimo è molto articolata. Il salario è solo una parte seppur importante di un contratto di lavoro che regola anche diritti, ferie, malattie etc. Come ha sottolineato il segretario generale della CGIL “serve una legge che dia validità generale ai Ccnl in modo che diventino vincoli di legge sia la paga oraria, sia tutti i diritti contenuti nei contratti. Questo deve valere per tutti lavoratori e lavoratrici siano subordinati, autonomi o a partita Iva . Inoltre è necessario aumentare i salari perché ci sono milioni di persone che hanno paghe orarie sotto i 9 euro.”
Ci piace ricordare che nel 1954 Giuseppe Di Vittorio è- insieme a Teresa Noce- tra i primi firmatari di una proposta di legge, annunciata il 14 maggio (firmata anche da Foa, Santi, Roasio, Ravera, Li Causi) relativa alla fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori, dando applicazione all’articolo 36 della Costituzione.
Alla mancata efficacia dei contratti collettivi, ha sopperito nel corso degli anni una consolidata giurisprudenza secondo la quale i minimi tabellari stabiliti nei Ccnl sono applicabili anche alle imprese e ai lavoratori che non hanno sottoscritto alcun contratto collettivo. Circa il secondo punto, l’elevato numero dei Ccnl ha dato luogo al fenomeno cosiddetto dumping contrattuale, vale a dire l’applicazione di contratti firmati da organizzazioni sindacali e padronali che non sono maggiormente rappresentative e che applicano minimi tabellari più bassi.
Se questa è la realtà che si riscontra nel nostro Paese, il salario minimo, potrebbe essere un utile strumento contrattuale, non solo per i lavoratori, ma anche per le imprese, proprio perché gli imprenditori onesti sono stanchi della concorrenza sleale di chi propone paghe da fame e contratti precari.
Il salario minimo e in generale, gli aumenti retributivi, ostacolerebbero proprio quelle imprese che con la loro condotta spregiudicata “avvelenano” il mercato.
L’evoluzione dei contratti registrati al CNEL
La tendenza del moltiplicarsi dei contratti collettivi è confermata da quasi mille contratti che riguardano 16,6 milioni di lavoratori pubblici e privati, esclusi agricoltori e domestici, ai quali si aggiungono 251 mila lavoratori pubblici a cui si applicano direttamente le norme di legge. Il numero dei contratti dal 2012 ad oggi è raddoppiato e il fenomeno non sembra fermarsi. Se ne deduce che ad una altissima copertura contrattuale corrisponde una estrema frammentazione dei Ccnl e una moltiplicazione infinita delle condizioni contrattuali.
Il numero dei Ccnl nazionali depositati presso il CNEL continua a crescere, dai circa 300 di metà anni duemila si è arrivati ai mille di oggi. Solo il 22% sono firmati dalle tre confederazioni più rappresentative (mentre erano 57% nel 2001), il resto è regolato da altre sigle. Alcune sono organizzazioni vere, altre invece sono sigle concretamente inventate per firmare contratti di comodo, detti “pirata”, per pagare salari inferiori a quelli previsti dai Ccnl di settore. Saranno pure un numero esiguo, come dice il governo, ma parliamo sempre di 2,8/3 milioni di persone.
Questa tipologia di contratti sono via via cresciuti, firmati da organizzazioni sindacali, spesso costituite ad hoc, con il bene placido delle , con le quali si contrattano salariali molto bassi, che nel tempo hanno indebolito di molto la contrattazione nazionale e i sindacati confederali. Secondo l’economista Andrea Garnero, più della metà dei contratti collettivi nazionali copre meno di mille lavoratori e un quarto meno di 100. Questo con conseguenze negative per i lavoratori e per le aziende che non possono competere sui mercati a parità di condizioni con le altre.
Altra questione molto delicata è legata al mancato rinnovo dei contratti anche per diversi anni.
Il moltiplicarsi dei Ccnl è andato di pari passo con l’aumento vertiginoso della precarietà del lavoro che i provvedimenti legislativi hanno accompagnato dalla metà degli anni ‘90 in poi, qualunque fosse il governo. L’Istat ci dice che oggi sono quasi 5 milioni i lavoratori non standard, cioè a tempo determinato, part time involontario, collaboratori a vario titolo. Soprattutto giovani, donne nel mezzogiorno e stranieri. E’ da sottolineare che tutto ciò a dispetto della quantità enorme di risorse che i governi hanno messo a disposizione delle imprese, senza alcuna condizione.
Eppure in Italia, come abbiamo visto, esiste persino un “salario minimo costituzionale”. L’articolo 36 della Carta detta i criteri d’ogni genere d’accordo sulla retribuzione del lavoro e per ogni tipo di rapporto (subordinato, autonomo, stabile e a termine ecc).
L’esperienza maturata sul campo legata all’introduzione del salario minimo in primis rappresenterebbe una spinta alla domanda aggregata, ciò avverrebbe attraverso l’incremento del tasso medio dei salari che di per sé è una misura di equità e dignità per il lavoratore, ma avrebbe anche l’effetto di incrementare la propensione ai consumi. Inoltre si avrebbe una inversione di tendenza rispetto ad una lunga decrescita della dinamica salariale.
La Direttiva Europea sul salario minimo
Alla fine dell’ottobre 2022 l’UE ha approvato la direttiva sui salari minimi per legge. Gli Stati membri avranno tempo fino al 15 novembre 2024 per recepirla. Le ricadute sull’Italia saranno poche soprattutto se non si vorrà cogliere l’occasione per una riflessione adeguata che vada oltre la lettera della norma comunitaria.
La direttiva si fonda su due pilastri: uno serve per garantire salari minimi adeguati ed è destinata ai paesi che prevedono un salario minimo per legge (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia sono esclusi); il secondo mira a promuovere la contrattazione collettiva dei salari, soprattutto nei Paesi in cui la copertura della contrattazione non raggiunge l’80%. In questi casi si lascerebbe la possibilità agli Stati membri di imporre cifre fisse per legge.
Molti commentatori l’hanno definita “insipida”, ma è ingeneroso visto il cambio di passo dal punto di vista politico: fino a pochi anni fa il mantra della flessibilità salariale e la decentralizzazione erano i temi centrali del confronto politico.
E’ importante sottolineare che si tratta di Direttive che in base al diritto europeo, a differenza dei Regolamenti, non sono direttamente applicabili nei paesi dell’EU. Queste devono essere trasferite nell’ordinamento nazionale( ad esempio entro ottobre 2024 per quanto riguarda il salario minimo)) e stabiliscono gli obiettivi generali che gli Stati membri devono perseguire.
E’ vero però che la Direttiva in questione non obbliga a introdurre un salario minimo e non impone un suo livello, ma si concentra sulla governance , in particolare per rafforzare il coinvolgimento della parti sociali sul monitoraggio e sulla raccolta dei dati e sull’applicazione dei minimi salariali.
Per l’Italia, quindi, non rappresenta quel “vincolo esterno” che alcuni temevano. Gli obblighi per il nostro Paese riguarderanno in particolare il monitoraggio dei dati e l’applicazione dei minimi.
Non c’è dubbio che la disciplina salariale più idonea sia quella contenuta nei contratti collettivi nazionali dei vari settori produttivi, perché scaturita dalla dialettica tra le parti sociali e perché risulta articolata per qualifiche professionali. Ma questo a patto che i contratti collettivi, una volta conclusi, siano applicati a tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai rispettivi sindacati, e per altro verso che la contrattazione copra tutti i settori produttivi, compreso quello dell’agricoltura, del commercio e dei servizi.
Come abbiamo visto, il dilagare della povertà lavorativa, la difficoltà per i sindacati confederali a raggiungere settori e lavoratori marginali e la generale erosione della contrattazione collettiva, hanno contribuito a spostare gli equilibri politici in molti Paesi europei.
Primo fra tutti la Germania dove, a fronte di una progressiva perdita della capacità di dare protezione ai lavoratori più vulnerabili attraverso la contrattazione, le forze politiche hanno spinto per l’introduzione di un salario minimo legale che è entrato in vigore nel 2015.
Accanto al moltiplicarsi dei contratti collettivi, a rendere più difficile la situazione è stata la crescita anche del fenomeno della vacanza contrattuale, ossia il tardivo rinnovo di un contratto scaduto. A settembre 2022 circa il 50% dei lavoratori dipendenti erano, in media da quasi tre anni, con contratti scaduti.
In conclusione, non sarà l’Europa a risolvere i problemi della contrattazione collettiva italiana che richiedono un’assunzione di responsabilità nazionale. Vorremmo sperare che la discussione che ci sarà per il recepimento della direttiva e il lavoro di monitoraggio e raccolta dati che la norma europea impone possano contribuire ad un confronto non urlato, che si misuri con la realtà lavorativa sempre più relegata ai margini del confronto politico.