Vi è molta incertezza su quali saranno gli effetti a medio e lungo termine della crisi in atto. E’ certo che quest’anno tutte le aree economiche del pianeta, con l’eccezione della Cina, andranno in recessione, con un aumento impressionante della disoccupazione, dei disavanzi e dei debiti pubblici. Più difficile invece valutare le conseguenze politiche sociali ed economiche per il futuro non immediato.
Intanto non sappiamo quando la pandemia attuale potrà essere effettivamente considerata superata. Cioè i tempi di introduzione di un vaccino o di una terapia risolutiva. Ciò significa che permarranno i problemi economici collegati al “distanziamento sociale” sia all’interno dei singoli Paesi (spostamenti, trasporti, scuole, attività ricreative, turismo ecc.), sia per quanto riguarda i movimenti delle persone e delle merci a livello globale. Tutto ciò non potrà che ripercuotersi negativamente sull’economia. Inoltre, poiché sono tutt’altro che da escludere nuove pandemie per il futuro, il timore provocherà conseguenze, ora imprevedibili, non solo sull’organizzazione dei sistemi sanitari, ma anche sulla struttura della produzione, le catene del valore, i commerci e i trasporti a livello globale.
Secondo alcuni (La Malfa) la ripresa sarà molto rapida e soddisfacente perché i Governi e le Banche Centrali sono intervenuti tempestivamente, ciascuno nel proprio ruolo, a differenza di quanto accadde nel 2008, mentre i consumatori e le imprese non avrebbero mutato le loro preferenze e i loro piani. Secondo altri (Roubini) potremmo essere di fronte ad una tempesta perfetta che si manifesterà pienamente nei prossimi anni.
Personalmente ritengo che i problemi che dovremo affrontare saranno molto seri.
La prima questione riguarda la crescita dei disavanzi e debiti pubblici (e privati), problema non risolto dopo la crisi finanziaria di 12 anni fa nonostante le politiche non convenzionali delle banche centrali, proprio perché non affrontato con un approccio e una strategia globale. La Cina non ha avuto problemi grazie alla sua impressionante crescita economica, gli S.U. hanno utilizzato la flessibilità della loro economia, la forza del dollaro e delle loro multinazionali tecnologiche, recuperando crescita e posti di lavoro, continuando però ad indebitarsi all’interno e all’estero, e subendo un rapido declino della loro forza e capacità di leadership mondiale. In Europa la Germania e gli altri Paesi core hanno approfittato della moneta unica e delle politiche di austerità imposte agli altri Paesi per drenare risorse reali e finanziarie a loro beneficio. Il Regno Unito, con la Brexit, ha rifiutato l’egemonia tedesca ritenendo (illudendosi?) di poter fare da solo. Il Giappone ha continuato ad accumulare debito pubblico che viene però acquistato dalla BOJ e da altre istituzioni nazionali ponendosi così al riparo dalle reazioni dei mercati. Questa situazione ha fatto sì che l’intera comunità internazionale giungesse impreparata sia sul piano sanitario che su quello economico alla crisi attuale.
Per il momento non sembrano esistere rischi di una nuova crisi bancaria, ma i possibili fallimenti delle imprese private, oltre alla crescita dei debiti pubblici, potrebbero di nuovo renderla attuale. Né è da escludere che la deglobalizzazione in corso, che potrebbe accentuarsi nel caso dell’aggravarsi del conflitto tra Cina e Stati Uniti e delle spinte protezionistiche, possa creare strozzature nell’offerta e quindi fenomeni di stagflazione di difficile gestione.
I dati disponibili indicano che alla fine del 2020 l’Italia avrà un disavanzo pubblico superiore al 10% del Pil, e un debito pari al 150-160%. Anche Francia, Spagna, Portogallo ecc. subiranno contraccolpi finanziari molto seri. L’Italia, tuttavia, sarà sempre più l’anello debole della catena. Il problema della gestione congiunta dei livelli di debito eccessivi si riproporrà con forza, per lo meno a livello europeo. Esistono in proposito vecchie proposte come quella Visco-Saggi Tedeschi, quella denominata P.A.D.R.E., quella elaborata da Minenna (che hanno tutte la caratteristica di non comportare trasferimenti di risorse tra i diversi Paesi dell’Unione), e altre potrebbero essere avanzate. Tutte queste proposte, tuttavia, presuppongono forme di garanzia congiunta che per il momento vengono ritenute tabù. Su questo bisognerà lavorare. In questo contesto l’ipotesi di trasformare i debiti europei collocati all’interno del sistema delle banche centrali europea in titoli europei, sarebbe razionale e non dovrebbe incontrare opposizioni tecniche, ma sicuramente incontrerebbe resistenze politiche molto forti.
Si pone anche con molta evidenza il problema dello statuto della BCE che è chiaramente inadeguato rispetto agli obiettivi di un mercato interno funzionante in modo corretto. L’idea che l’unica funzione di una Banca Centrale debba essere quella di controllare l’inflazione, dopo 10 anni di effettiva deflazione a livello mondiale, appare grottesca, così come è inaccettabile dover fare i conti, in un unico mercato, con molteplici tassi di interesse diversi (spread). L’Italia, in accordo con la Francia e altri Paesi, dovrebbe cercare di porre la questione sui tavoli europei, fornendo le necessarie garanzie sulla gestione della propria finanza pubblica. I rischi di un collasso del progetto europeo per ragioni economiche, politiche e sociali, è molto forte, nonostante gli strumenti di intervento posti in essere dalla Commissione (che tuttavia hanno il limite, finora, di produrre ulteriore debito per i singoli Paesi non appena venissero adottati) e dalla BCE che è l’Istituzione che finora garantisce ancora la tenuta della moneta unica, sia pure nei limiti del suo mandato che consente soltanto una monetizzazione indiretta dei debiti degli Stati, ed esclude soluzioni tipo helicopter money, che invece vengono oggi adottate dalle altre banche centrali.
Del resto non è un caso che in questo momento tutti e tre i principali pilastri su cui si è basata finora l’Unione Europea: Shengen, il patto di stabilita, e le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato, sono sospesi.
E’ difficile prevedere come evolverà la situazione dopo la crisi. Una possibilità, che probabilmente è quella cui pensano la Germania e i suoi satelliti, è quella di ritornare all’ortodossia che ha prevalso negli anni passati con la dose di austerità necessaria. Questo approccio è quello che più probabilmente porterebbe alla dissoluzione dell’Europa. Per evitare questo rischio sarebbero necessari cambiamenti rilevanti: al posto del patto di stabilità e delle regole di Maastricht, andrebbe introdotta la golden rule per gli investimenti, ma si dovrebbe anche trovare una soluzione per la sistemazione dei debiti pubblici pregressi, e una politica di cooperazione e rilancio delle politiche fiscali. In assenza di questi cambiamenti, è molto probabile che l’Italia sarebbe costretta ad adottare interventi di finanza straordinaria piuttosto incisivi. Stando così le cose, appare scarsamente comprensibile l’accesa polemica sull’adesione o meno al MES, dal momento che i rischi di default che corre il Paese sono già oggi molto elevati, anzi addirittura certi se la copertura della BCE venisse meno o fosse considerata insufficiente dai mercati. In altre parole, non ha molto senso preoccuparsi della Troika futura se essa è già (virtualmente) presente tra noi oggi.
All’interno di questa strategia è anche possibile che si cerchi di promuovere una crescita ad ogni costo, accantonando ogni velleità di Green new deal e di cambio del modello di sviluppo europeo, come già propone la Repubblica Ceca e come potrebbero desiderare settori non trascurabili dei produttori europei.
La soluzione preferibile sarebbe ovviamente quella di approfittare della crisi per cambiare il modello di sviluppo europeo, accelerando gli investimenti necessari alla transizione ecologica e per le infrastrutture comuni, comprese quelle sociali come la sanità, l’assicurazione contro la disoccupazione, ecc., e rilanciando il processo di integrazione sia per quanto riguarda il ruolo della Banca Centrale che per la gestione del debito.
Senza le correzioni indicate al modello tradizionale, o in mancanza di un deciso cambio di strategia, come alternativa non resta che la dissoluzione dell’Europa e l’adozione di modelli di gestione autoritari, isolazionistici, protezionisti, come quelli già in essere in Ungheria o Polonia, con l’illusione di poter seguire una via cinese allo sviluppo. Tale soluzione, che è quella preferita dai sovranisti (di destra e di sinistra) comporterebbe per l’Italia un impoverimento valutabile in almeno un 30% del nostro reddito e della nostra ricchezza.
Venendo più specificamente ai problemi italiani, va riconosciuto che il Governo Conte ha gestito in maniera adeguata la crisi sanitaria. Anche la fase 2 sembra aver avuto un buon inizio. Le misure economiche e finanziarie messe in campo sono -più o meno- quelle giuste, anche se scontiamo i limiti di finanziamento imposti dal livello del nostro debito pubblico, e le abituali difficoltà nella fase attuativa con tutte le recriminazioni del caso. Il protrarsi di questi ritardi potrebbe tuttavia compromettere la ripresa, comportando il fallimento di molteplici piccole attività, e provocando contraccolpi sociali molto forti. In particolare le misure previste, mentre appaino adeguate per i lavoratori che operano in contesti strutturati e per le imprese, lasciano ai margini un ampio settore di piccole attività commerciali o di servizi la cui operatività è stata cancellata dalla crisi e che non hanno forza organizzativa e rappresentanza politica.
La crisi ha dato nuova forza e stabilità al Governo, nonostante le intemperanze di Renzi, facendo dimenticare una manovra finanziaria tutt’altro che soddisfacente (tutta in deficit), ma che comunque scontava le infauste decisioni degli anni precedenti. Ora da più parti si sostiene che, una volta finita l’emergenza, l’attuale Governo non sarà in grado di gestire la ripresa in quanto privo di uomini, di visione, e di programmi credibili. C’è del vero in questa posizione, e c’è il rischio di sottovalutare l’entità delle riforme necessarie, e comunque manca un’analisi condivisa dei problemi del Paese.
Si confronteranno in proposito due linee alternative: ci sarà chi sosterrà che bisogna proseguire con le “riforme strutturali”, deregolando l’economia (la “lotta alla burocrazia”), privatizzando tutto il possibile, riducendo le imposte, condonando, derogando ai contratti di lavoro, ecc.; dall’altro si insisterà sulla lotta alle diseguaglianze, sul rafforzamento del welfare, sulla transizione ecologica, ecc. Al di là degli opposti orientamenti che i due approcci indicati esprimono, essi (soprattutto il primo) non sono sufficienti a fornire un valido indirizzo politico per il nostro Paese. Ciò di cui ci sarà bisogno, dopo la crisi, è infatti un grande e realistico programma di riforme radicali volte ad aumentare sia i livelli di produttività ed efficienza del Paese sia una maggiore eguaglianza e giustizia.
La questione più urgente da affrontare è la predisposizione di un grande programma pluriennale di investimenti pubblici, debitamente finanziati anno per anno fino al compimento dell’opera, dalla banda larga (per la quale dovrebbe essere risulto il contenzioso tra Tim e Open Fiber, unificando l’infrastruttura), alla tutela del territorio, alla efficienza energetica, alle infrastrutture, al completamento delle opere già iniziate, stabilendo per ogni progetto tempi certi, responsabilità, regole di esecuzione. La ripresa di una crescita adeguata è un prerequisito per l’Italia. Condiziona tutto il resto. Sarebbe anche necessario costituire un organismo in grado di formulare progetti (e relativi bandi) definiti ed operativi sia a livello nazionale che locale. Si tratta di rilanciare, anzi reinventare, un settore trascurato ed abbandonato e che dovrebbe essere una funzione propria e fondamentale del ministero delle Infrastrutture.
Analogamente sarebbe necessario trovare le risorse per aumentare i finanziamenti per la scuola e la ricerca.
In questo contesto si potrebbe pensare a un programma di rilancio delle zone interne in modo da renderle vivibili non solo a fini produttivi, ma anche per il loro ripopolamento. Il lavoro a distanza può fornire opportunità a questo fine.
La crisi ha posto in evidenza la necessità di una riforma del nostro welfare. Per quanto riguarda la sanità, gli indirizzi sono chiari: rafforzare il presidio territoriale e la rete di assistenza e controllo di base, rafforzare la sanità delle Regioni meridionali, ecc. Resta da vedere in che misura questo rafforzamento del sistema pubblico sia compatibile con la accresciuta e crescente presenza della sanità privata nel nostro Paese. Le risorse disponibili, infatti, rimangono limitate
La crisi ha evidenziato l’insufficienza, anzi l’assenza, di sostegni monetari rapidamente attivabili in caso di emergenza per tutto il mondo del lavoro non dipendente. Bisognerebbe studiare forme di intervento specifiche e relativi sistemi di finanziamento. Ciò, a sua volta evidenzia la necessità di meccanismi, diversi da quelli attuali, di finanziamento del welfare come quelli da me indicati nelle mie proposte di riforma fiscale.
Bisogna proseguire nel processo di ricomposizione del mercato del lavoro, e approvare una legge sulla rappresentanza sindacale.
Vi sono anche alcune questioni costituzionali da valutare con attenzione. La prima riguarda la riforma del Titolo V che l’esperienza dell’epidemia ha dimostrato del tutto inadeguato e fonte di confusione e paralisi operative. Rinvio anche in questo caso ad altri miei scritti, tuttavia la riforma dovrebbe superare l’improbabile individuazione ed elencazione di competenze esclusive e concorrenti limitandosi a stabilire che i rapporti tra diversi livelli di Governo debbano avvenire in base al principio di sussidiarietà, salva la prevalenza dell’interesse nazionale. Vi è poi il problema dell’art. 53 della Costituzione relativo alle caratteristiche del sistema tributario che andrebbe integrato prevedendo oltre al principio di equità “verticale”, la progressività, anche quello di equità “orizzontale”, in modo da evitare abusi e discriminazioni tra contribuenti con lo stesso reddito e che si trovano nelle stesse condizioni. Oggi l’esercizio di una totale discrezionalità è talmente diffuso da rendere del tutto irrazionale il nostro sistema di prelievo. Rimane anche aperta la questione del ruolo del Senato e quella della regolamentazione dei Partiti politici (art. 49).
Andrebbe rivista l’intera materia degli incentivi alle imprese che sono fonte di sprechi, abusi, sovrapposizioni, senza nessuna verifica sulla loro efficacia.
La riforma del sistema fiscale è urgente. Su questo ho scritto molto in varie sedi, e non mi dilungo. Va chiarito comunque che sulle “tasse” si giocano opposte visioni del mondo e dell’economia. Se si vuole un sistema di welfare adeguato, istituzioni pubbliche autorevoli, infrastrutture moderne ecc. le tasse sono necessarie e devono finanziare l’intera spesa pubblica salvo quella destinata ad investimenti produttivi. Il contrasto all’evasione è essenziale e prioritario; anche in questo caso le proposte non mancano e ad esse rinvio, salvo sottolineare il ruolo improprio assunto negli ultimi anni dal Garante della Privacy che ha di fatto ostacolato o bloccato l’uso sistematico delle banche dati da parte dell’Agenzia delle entrate, mentre oggi e in futuro il contrato all’evasione dovrà avvenire utilizzando sistemi di intelligenza artificiale, e i big data. Per quanto riguarda le spese occorre il massimo rigore per evitare sprechi ed eccessi di qualsiasi genere.
Vi è poi il problema della “burocrazia”, e cioè del funzionamento del nostro apparato pubblico che è senza ombra di dubbio una questione fondamentale e un ostacolo per la nostra economia. La nostra incapacità di gestire, di attuare tempestivamente le norme, di formulare procedure praticabili è tale da provocare una semi-paralisi delle attività delle nostre istituzioni. Il problema, tuttavia, è molto più complesso e strutturale di quanto non si riconosca, e ha le sue origini nella stessa concezione generale e nella articolazione concreta del nostro diritto amministrativo. E’ un problema culturale che ha a che vedere con la logica del sistema normativo, il funzionamento della giurisdizione, i criteri di assunzione e di carriera, le professionalità richieste, ecc. Tutti i Governi recenti hanno varato riforme della Pubblica Amministrazione senza alcun successo, affidandole a giuristi esperti di diritto amministrativo che collocano la P.A. all’interno di una visione organicistica, un settore da regolare unitariamente, un insieme di procedure standard valide in ogni caso. Il sistema inoltre si autoalimenta in quanto gli uffici legislativi, i gabinetti dei ministri sono nelle mani di esperti di diritto amministrativo (magistrati del Consiglio di Stato, dei TAR, della Corte dei Conti) che scrivono leggi complesse e contorte che il Parlamento contribuisce a complicare ancora di più, e che fanno la felicità degli avvocati. In altre parole, la questione è irrisolvibile con ritocchi e interventi puntuali. Sarebbe necessario un completo capovolgimento del modus operandi attuale. Per ogni amministrazione andrebbe studiato ed attuato un vero e proprio piano industriale sulla base dei compiti da svolgere e del contesto in cui opera. Dovrebbe essere consentito a chi dirige le singole strutture di adeguare o mutare l’organizzazione degli uffici secondo le necessità, e di assumere (con forme concorsuali moderne) i profili professionali necessari. Accanto alla funzione dirigenziale dovrebbe essere riconosciuto un ruolo di esperti con gli stessi livelli retributivi ma senza compiti di gestione. Le competenze necessarie richiederebbero molti giuristi in meno, molti ingegneri, economisti, statistici, esperti di gestione aziendale, eventualmente anche matematici e filosofi in più, vale a dire persone in grado di analizzare e risolvere i problemi senza limitarsi ad enunciarli. Insomma una vera e propria rivoluzione alla quale siamo tutt’altro che preparati. La burocrazia dello Stato andrebbe ricostruita e valorizzata, e non contestata e umiliata come oggi avviene.
Anche la questione della corruzione andrebbe affrontata diversamente, senza paralizzare gli operatori, ai quali vanno riconosciuti, in tutta sicurezza, poteri decisionali, autonomia e discrezionalità nei limiti che normalmente vengono concessi ai dirigenti del settore privato. Vanno introdotti o potenziati organismi di controllo interni alle singole amministrazioni, indipendenti e con alta professionalità, in grado di verificare la sostanza delle condotte di ciascuno, intervenendo ex post in caso di necessità senza paralizzare l’amministrazione e caricare di lavoro inutile i tribunali, ma con una capacità di deterrenza sostanziale.
Per quanto riguarda le politiche industriali, il primo aspetto che va sottolineato riguarda il “nanismo” delle nostre imprese. Nel corso degli ultimi 10-20 anni si è cercato più volte di intervenire ad incentivare, prevalentemente con misure di carattere fiscale, fusioni, acquisizioni, ecc., si sono varate prima la Dit, poi l’ACE per facilitare la crescita mediante ricorso al capitale proprio, ma il successo è stato trascurabile. Su questo problema influiscono diversi fattori a partire da quello culturale, ma un ruolo rilevante va attribuito a tutti i meccanismi di favore, di agevolazione, di incentivo che prevedono soglie massime per l’accesso ai benefici previsti, e che riguardano norme e prescrizioni centrali o locali che incentivano le imprese a rimanere piccole. Inoltre l’evasione e l’elusione fiscale giocano un ruolo rilevante in quanto la dimensione ridotta o familiare facilitano la mancanza di trasparenza.
Inoltre sarebbe opportuno unificare le partecipazioni statali in uno o più appositi contenitori per una loro gestione razionale al fine di effettuare investimenti a lungo termine in settori in cui le imprese private non sono in grado o non vogliono assumere rischi. In altri termini si dovrebbe passare da una gestione finanziaria volta a massimizzare i dividendi del Tesoro, come quella attuale, ad una gestione orientata alla crescita e allo sviluppo del Paese. Le holding così create dovrebbero essere totalmente indipendenti rispetto a pressioni e interessi politici o sindacali.
In conclusione, i problemi da affrontare sono numerosi e complessi. Le risorse disponibili sono e resteranno scarse, e quindi andranno definite priorità, e risolti possibili conflitti tra gli obiettivi (trade-off). La linea che qui viene prospettata non si basa sul rilancio dei consumi individuali e sulla conseguente ripresa del mercato, bensì su un consapevole e consistente aumento degli investimenti pubblici e privati e su riforme istituzionali e strutturali in grado di far progredire un Paese che finora non ha saputo adattarsi alle necessità della nuova economia che si è sviluppata negli ultimi decenni. Si tratta di investire sul domani, piuttosto che pensare di ottenere risultati immediati come promette (illusoriamente) l’altra linea.
Roma 5.5.2020