Abbiamo definito epicentro della crisi del Sindacato le vicende al vertice appena archiviate in casa Fisac Cgil. Ti rammento che siamo entrati a lavorare quasi negli stessi anni dentro la cosiddetta “foresta pietrificata” che era il sistema creditizio italiano alla fine del secolo scorso. Ti chiedo Giuseppe come siamo arrivati a pietrificarci ora noi come Sindacato?
Non so se le difficoltà della Fisac e più in generale del sindacato dei bancari possano essere considerate “epicentro della crisi del sindacato”. Certo la categoria non poteva e né può estraniarsi dalle vicende più generali del movimento sindacale, ma evidentemente, vanno anche rilevate alcune peculiarità di cui farò cenno più avanti.
Purtroppo non siamo entrati in banca “quasi negli stessi anni” perché, data la maggiore età, sono entrato in banca, in una piccola Cassa di Risparmio, a metà anni sessanta, appena diplomato. Allora le condizioni di lavoro erano diverse anni luce, sia per il clima sociopolitico generale, sia per quello del settore e tanto più in una piccola azienda e peraltro con un vertice legato agli ambienti vaticani e conservatori. Il clima era parternalistico autoritario e non c’era lo Statuto dei lavoratori.
Solo chi ha lavorato prima di questo è in grado di apprezzarne il valore. Mi piace ricordarlo citando una nota frase di Lenin, ovviamente su questioni del tutto diverse: «fare un passo indietro per farne due in avanti». Mi riferisco al fatto che prima dello Statuto la distribuzione dei volantini in azienda doveva avvenire fuori dell’Azienda e noi provocatoriamente lo facevamo, la mattina presto, a un passo davanti la soglia dell’entrata, controllati a vista dai commessi. Dopo, la facemmo un passo dietro la soglia dell’entrata. Ma sindacalmente erano due e più passi in avanti!
C’era solo un sindacato confederale il cui segretario era anche il capo di una delle maggiori filiali della Cassa. Una volta all’anno in prossimità del Natale e di un premio di produzione elargito il Direttore generale riuniva il personale e parlava, ricordo ancora, dello «spirito di sacrificio del personale» e della «benevolenza della azienda». Ma gli straordinari non si pagavano!
Fu la prima battaglia della Fidac Cgil, i cui dirigenti erano bravi sul lavoro e bravi nell’impegno a difesa dei diritti dei colleghi, tanto che la lista della Fidac Cgil fece il pieno alle elezioni della Commissione interna .
Allora le iscrizioni non erano a conoscenza dell’azienda perché non c’era la trattenuta sulla busta paga e i contributi venivano raccolti di persona dal sindacalista.
Ricordo un’accesa discussione a Via del Seminario, dove c’era allora la sede della Fidac provinciale di Roma, se comunicare pubblicamente il numero degli iscritti al nostro sindacato. Va ricordato che allora nel settore bancario l’adesione alla Cgil era molto scarsa e piuttosto osteggiata dalle aziende. Quando comunicammo il numero di 150 (non ricordo con precisione il numero) su circa 1800 dipendenti, sapemmo che si riunì addirittura il consiglio di Amministrazione per la notizia sconvolgente.
Si entrava come impiegati e si potevano raggiungere i gradi più elevati, non come ora che non esiste mobilità verticale. Naturalmente è una piccola storia di una piccola realtà bancaria, che può non essere pienamente rappresentativa del settore ma forse di qualche insegnamento.
In generale, non solo nelle piccole banche, c’era un rapporto stretto con il cliente e soprattutto con il piccolo risparmiatore. Il responsabile di segreteria fidi, per non parlare del direttore, conosceva la situazione economica e finanziaria del cliente meglio di lui. Quando arrivavano “le stanze” (cioè gli assegni emessi dal cliente per i suoi pagamenti ai fornitori e da questi incassati presso la loro banca che poi arrivavano a noi tramite la stanza di compensazione per la copertura) il direttore metteva il suo visto sulla scheda monitorando così giornalmente il conto.
Le CRR, non avendo finalità di lucro, accantonavano parte dei profitti a riserva e una parte a attività benefiche in cui la DC era come noto magna pars. Lo scandalo della Italcasse e l’autorizzazione a erogare il credito fondiario, considerando la stabilità della sua raccolta, li coinvolse nelle peggiori speculazioni edilizie.
Le altre banche ordinarie lo dovevano erogare tramite altre aziende, come il Credito fondiario partecipato dalle tre banche IRI (Comit, Credit, Banco di Rona) di cui avevano la proprietà azionaria. Così che si criticava la cosiddetta doppia intermediazione.
La “foresta pietrificata” mi pare sia un’espressione di Amato, allora ministro dell’Economia. Si riferiva alla frammentazione del sistema nelle tante tipologie giuridiche e di crediti speciali. E in particolare al sistema delle Casse di Risparmio che erano banche pubbliche gestite dalle Fondazioni.
La “riforma Amato” scisse le Fondazioni dalla gestione operativa delle CRR che divennero società per azioni con le Fondazioni azioniste di riferimento, mentre la riforma bancaria degli anni novanta, sulla spinta di quella americana, superò il Glass Steagall Act di Roosevelt che separava l’attività ordinaria da quella di investimento. Il credito ordinario da quello a medio e lungo termine.
Il mercato bancario, salvo il credito cooperativo e le banche popolari, fu dunque unificato. Si poneva il problema dell’unificazione del mercato del lavoro.
Il problema si presentò improvvisamente con l’unificazione della Cassa di Risparmio di Roma con il Banco di Santo Spirito, azienda di credito ordinario.
Lo affrontammo insieme noi come sezioni sindacali interne delle due banche, superando alcune divergenze iniziali, la Fisac nazionale diretta da Nicoletta Rocchi e la Cgil confederale in particolare con Antonio Pizzinato, alla cui grande intelligenza voglio dare atto. Contribuì molto a vincere le resistenze che nascevano da parte della Fiba/Cisl e della stessa Cisl molto presente nel settore delle Casse.
Oggi potremmo dire che da “foresta pietrificata” siamo passati alla foresta liquida, tanto per usare un concetto inflazionato di Bauman. Mi pare che lo stesso Amato abbia avuto qualche ripensamento critico. Qualcosa dirò in seguito.
Per tornare ai bancari e al sindacato non c’è dubbio che la categoria, da situazione di indubbio privilegio sia economico che normativo a cominciare dalla sicurezza dell’impiego e quindi anche di parziale isolamento dal movimento più generale dei lavoratori, dal dopoguerra ha affrontato un cammino, certo non facile in termini di consenso, di avvicinamento agli altri lavoratori e quindi anche di maturazione politica che Mimmo Moccia ha descritto su questo sito.
Le condizioni economiche si sono in pratica equiparate, mentre rimane l’ottimo strumento concordato tra aziende e OO.SS; quello del fondo che rende gestibili gli eventuali esuberi che nascono dalle pesanti e talvolta strumentali ristrutturazioni organizzative.
La realtà sindacale nella categoria ha alcune anomalie, e non certo da oggi, che dovrebbero essere superate.
Le confederazioni non hanno mai assegnato il giusto valore a un sindacato di categoria che in un settore così decisivo avrebbe da svolgere un ruolo importante nell’interesse dell’intero movimento e del Paese. Ruolo di critica e di proposizione per una funzione del settore secondo l’utilità sociale e non solo per gli interessi degli azionisti e dei manager,
Considerando la forza della controparte, solo uno stretto rapporto con le Confederazioni potrebbe almeno in parte riequilibrare l’asimmetria di potere.
Nella categoria esiste una pletora di sigle la cui vera rappresentatività andrebbe verificata, e non è mai esistita l’esperienza dei consigli d’azienda e non se ne parla.
La delicata attività di gestione del risparmio dovrebbe sollecitare a rapporti stretti con le associazioni dei consumatori. E’ noto che il consulente allo sportello si trova a subire tuttora pressioni fortissime nel collocare prodotti che spesso non sono adeguati al cliente.
I numerosi scandali anche recenti avrebbero forse trovato un qualche argine se ci fossero state alcune delle condizioni prima menzionate.
Mi pace ricordare un bel concetto del filosofo liberalsocialista Guido Calogero secondo il quale «la più solida democrazia è fondata sulla pluralità delle democrazie».
Non c’è dubbio che il contributo fondamentale del sindacato alla democrazia di un Paese è proprio quello della democrazia industriale ed economica.
Una questione che vede l’Italia da sempre in ritardo rispetto ad altri paesi e che a mio avviso è anche una della cause principali della nostra scarsa produttività.
Impegno per una maggiore democrazia sindacale per una conquistata democrazia industriale, attuando finalmente l’art. 47 della Costituzione, mi sembrano obiettivi assolutamente prioritari, e non solo per il sindacato.
Tu che sei un importante studioso dell’opera del professor Federico Caffè ricorderai senz’altro il visionario progetto di portare presso il centro di formazione sindacale di Ariccia i docenti universitari dell’Istituto di Economia Pubblica diretta e fondata proprio da Caffè. Non credi che oggi il Sindacato abbia un disperato bisogno nella sua area formazione della ricerca di nuovi strumenti di analisi ed interpretazione dell’attuale realtà economica e sociale riscoprendo quell’ancoraggio sociale senza la quale come hai scritto la scienza economica si trasforma in un arida tecnica di misurazione?
Più che un importante studioso di Federico Caffè cerco di esser un suo attento lettore e ho contribuito, credo, a farlo leggere o rileggere. Perché, come disse una volta Caffè, parlando di Luigi Einaudi, il modo migliore per rendere omaggio ad una personalità illustre è quello di leggerlo, di farlo leggere o rileggere. Caffè fu veramente molto impegnato personalmente e con il suo dipartimento nella formazione sindacale e in incontri con sindacalisti di diverso livello, da quello di base a quello di segreteria confederale delle tre sigle. Si può dire che portò la cultura keynesiana e del vero riformismo nel mondo sindacale. Considerava il sindacato una istituzione fondamentale per la democrazia di un Paese. Ho ricordato in un volume dedicato a Caffè un lungo corso di politica economica tenuto ad Ariccia e coordinata da Mario Tiberi; alla quale partecipò lo stesso Caffè con una bella relazione su Keynes e i migliori allievi e colleghi del suo dipartimento come Acocella, Franzini, Gnesutta, Pizzuti, Pier Carlo Padoan, e altri (Federico Caffè, un economista per gli uomini comuni, a cura di G. Amari e N. Rocchi, Ediesse, Roma 2007, p. 735-790).
Non c’è dubbio che si pone in modo urgente il problema della migliore formazione dei quadri sindacali e a tale proposito mi permetto una proposta. Visto che fortunatamente è ripreso il processo unitario sarebbe quanto mai utile pensare a un progetto e a un luogo di formazione unitario che metta insieme le culture e le esperienze delle tre confederazioni.
Ha scritto Alfonso Scarano sul Fatto del 6 luglio scorso che occorre indagare su una rapina silenziosa che si sta consumando sulla nostra terra “che impiomba l’economia del paese con tassi di usura elevatissimi che non favoriscono affatto la competizione bancaria “. Questo richiama l’esigenza che il sistema politico recuperi in fretta il suo ruolo specifico di equilibratore dell’interesse pubblico. Ricorda sempre Scarano che la Repubblica di Siena fondò la banca Monte dei Paschi proprio per affrontare concretamente il perverso impatto negativo dell’usura sull’economia. Precise e toccanti sono le parole del parere del Consiglio Generale del Comune senese, leggibili nel verbale della seduta del 7 giugno 1420 sul problema del prestito a interesse: “A poveri huomini sono mangiate l’ossa con la grande usura et sono male tractati”. La soluzione fu il Monte dei Paschi: “Si proveggha – prosegue il verbale – che povari uomini possano avere qualche ricorso et rifugio ne’ loro bisogni, ma questo non si debbi fare con animo d’utilità, la quale d’usura possa adivenire, ma per con- servare le povare persone”. Oggi che il Monte è di fatto una Banca pubblica cosa le impedisce un suo ritorno alle origini?
G.A. L’amico Scarano è da sempre meritoriamente impegnato sulle condizioni della gestione del risparmio e della erogazione del credito. Nonostante si parli dei bassi e anche negativi tassi di interesse, questi si riferiscono al costo della raccolta sul mercato privato e soprattutto su quello interbancario e della BCE. Quelli attivi, cioè quelli praticati ai prestiti, sono elevatissimi sia in relazione al tasso di inflazione, sia relativamente al costo della raccolta realizzando uno spread forse tra i più elevati di ogni tempo.
Tassi, che certo non favoriscono quegli investimenti di cui abbiamo bisogno per far ripartire il “nuovo modello di sviluppo”. Così avviene che il circuito finanziario non confluisce in quello reale, ma gira su se stesso alimentando bolle speculative.
Non è inutile ricordare l’invito di Caffè quando affermava che il “nuovo modello di sviluppo” si «trova nella sua ispirazione ideale nella prima parte della Costituzione, nelle condizioni tecniche nei lavori della Commissione economica della Costituente».
I presupposti ideali del programma economico della Costituzione si trovano, dunque, nei 12 Principi fondamentali e nei primi due Titoli quelli dedicati ai Rapporti dei diritti e dei doveri del cittadino e ai Rapporti etico-sociali. I contenuti essenzialmente nel terzo Titolo dedicato ai Rapporti economici, ben compendiato in anticipo dall’art. 3, quello sulla «rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale» all’eguaglianza sostanziale dei cittadini.
Basti ricordare al nostro scopo l’art 41 quando afferma che «[…] La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» e il dimenticatissimo art. 47 quando afferma: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito […]».
Norma che recepisce una delle conclusioni della Commissione economica della Costituente, ricordata da Caffè, quando parlava di un «imbrigliamento del credito in funzione della programmazione».
Quando si effettuavano tali considerazioni era molto larga, anzi dominate, la presenza dello Stato, diretta e indiretta, nel credito.
E del tutto ovvio che se si vuole riprendere quel discorso costituzionale come sembra oggi ancor più necessario, va indubbiamente riconquistata una significativa presenza pubblica nel settore. Intanto non abbandonando quella già esistente come il Monte dei Paschi di Siena.
Naturalmente con l’avvertenza e con gli accorgimenti che non si ripetano gli errori del passato che hanno creato sfiducia nella presenza pubblica nel credito e non solo nel credito.
Ma agli errori del pubblico non si risponde con il ritorno al privato ma creando gli anticorpi alle potenziali degenerazioni. Innanzitutto intensificando il controllo e la partecipazione democratica, impegnati nel rinnovamento civile chiesto dall’art. 54; che ricorda il dovere di adempiere le funzioni pubbliche con «disciplina ed onore». Senza il quale rinnovamento tutto crolla, come afferma Zagrebelsky.
In questo settore come in altri, a cominciare intanto dalle aziende pubbliche, non si vede perchè non sperimentare, ad esempio, la governance “duale” prevista dalla normativa europea e praticata da altri paesi come la Germania. Una governance che prevede il “consiglio di sorveglianza” dedicato alle strategie aziendali e in cui è prevista la presenza sindacale. Mentre la gestione ordinaria rimane al consiglio di amministrazione.