Ecco la parte conclusiva della lectio doctoralis pronunciata da Bruno Trentin all’università Ca’ Foscari, in occasione del conferimento della laurea ad honorem, il 13 settembre del 2002.
E’ facile però comprendere a questo punto, come l’obiettivo di Lisbona*, la costruzione di una società della conoscenza e di nuovi rapporti sistemici fra lavoro e conoscenza non possa essere ridotto ad una questione di soldi o ad una questione organizzativa. Si tratta in realtà di avviare una sorta di rivoluzione culturale capace anche si superare con l’iniziativa politica e sociale le molte inerzie che si frappongono al suo conseguimento.
Inerzia delle forze politiche che stentano ad individuare in uno Stato sociale incentrato sulla formazione, la priorità delle priorità di una politica economica e della piena occupazione e che preferiscono magari rincorrere la moda di una riduzione indiscriminata della pressione fiscale, accompagnata, inevitabilmente, da una riduzione delle risorse per scuola, formazione, ricerca.
Inerzia di molte realtà imprenditoriali che privilegiano la flessibilità in uscita della loro manodopera, rispetto ad un investimento a medio termine in formazione che assicuri un maggiore uso della flessibilità del lavoro all’interno dell’impresa e, in ogni caso, una maggiore occasione di impiegabilità e di rioccupazione per i lavoratori.
Inerzia anche nella psicologia di molti lavoratori che vedono spesso con avversione l’impegno in un attività formativa, soprattutto al di là di una certa soglia di età.
Inerzia in alcuni settori della scuola di fronte alla necessità di sperimentare nuove forme di autonomia rimettendo in questione vecchie certezze.
E inerzia anche in tanti comportamenti sindacali che tardano a mettere la conquista di un sistema di formazione per tutto l’arco della vita, al centro della contrattazione collettiva.
Ci sarebbe quindi da diventare scettici sulle possibilità di realizzazione delle strategie di Lisbona e sulla possibilità di superare, sia pure gradualmente, quel ritardo di dieci anni che si è accumulato, negli anni ’80, in Europa rispetto alle competitività dell’economia degli Stati Uniti.
Ma ci possono essere di conforto due convinzioni: La prima consiste sul fallimento ormai incontrovertibile di quelle politiche dell’occupazione che non passino per la promozione di un’attività formativa del fare e del sapere fare, capace di completare e di valorizzare la formazione scolastica. E la controprova è rappresentata dal sistema di apprendistato in Germania che ha ridotto ai minimi termini la disoccupazione giovanile di lunga durata. Siamo ormai costretti a compiere certe scelte.
La seconda deriva dall’esperienza che ho vissuto negli anni 70, quando si trattò di sperimentare nel mondo del lavoro salariato e nel mondo della scuola l’accordo sindacale sulle 150 ore di formazione a carico delle imprese per 300 ore di formazione effettiva. Con tutti i suoi limiti, i suoi errori e le sue sbavature, quell’esperienza liberò tali energie nel mondo della scuola e in quello di lavoratori meno qualificati e consentì di mettere persino alla prova gli elementi di una nuova pedagogia per la formazione degli adulti, da lasciare tracce profonde anche i molti quadri sindacali. Questa esperienza è andata oggi in larga misura dispersa. Ma è stata possibile!
E oggi, è possibile liberare, come l’avventura dell’Unione Europea, energie, iniziative, azioni politiche e sociali, simili a quegli degli anni ’70, consapevoli e forti di essere per la nostra economia e la nostra società, senza alternativa credibile (e senza molto tempo davanti a noi, se non vogliamo ripetere, all’inizio di questo secolo, l’esperienza disastrosa, per l’Europa e per l’Italia, degli anni ’80, che aprì un solco rispetto alla competitività degli Stati Uniti)?
*La realizzazione dell’obiettivo fissato dall’Unione Europea con il vertice di Lisbona nel 2001, di portare entro il 2010 al 70% il livello medio di occupazione della popolazione totale dell’Unione, di incentivare l’invecchiamento attivo e la riqualificazione dei lavoratori anziani, di favorire, per tutti, una maggiore mobilità professionale verso l’alto, durante la vita lavorativa, presuppone quindi un radicale cambiamento nella struttura della spesa pubblica e nell’organizzazione del sistema formativo: in tutti i Paesi dell’Unione.
Abbiamo ri-trovato questo discorso di Bruno Trentin che oggi più che mai può divenire lo specchio su cui ri-flettere le nostre azioni e i nostri progetti sull’oggi e sul domani.
Quando la pandemia si è manifestata nelle nostre società, la prima cosa che abbiamo messo in sicurezza è stato il mondo della scuola che ha dovuto immediatamente re-inventarsi trovando e sperimentando nuovi sistemi di apprendimento.
Gli Stati generali in corso a Villa Pamphilj a nostro avviso sono il luogo più adatto per ri-partire proprio appunto dalla scuola consegnandole le chiavi del cambiamento della società italiana.
Ciascuna istituzione sia politica, sociale che economica dovrà semplicemente modificare in profondità sia la propria natura costitutiva nonchè le modalità di funzionamento dentro un processo continuo e costante di aggiornamento.
La scuola al centro deve pertanto diventare il nuovo paradigma su cui rimodellare i modelli di rappresentanza sociale con cui compiere il salto generazionale di cui la nostra società ha un bisogno vitale.
Questo significa semplicemente avvicinare lavoro e conoscenza come intendeva Bruno.
Ma significa anche che non esistono scorciatoie di nomenclatura ma processi duraturi che restituiscano la responsabilità alle nuove generazioni proprio quelle dovranno riparare i danni che abbiamo dinanzi.