Siamo giunti alla seconda puntata sul tema giustizia redatta dal nostro
Ugo Balzametti.
Ricordiamo che la prima è qui.
Come si articola la riforma Cartabia
Nel vasto programma politico, organizzativo e gestionale, racchiuso nel Piano Next Generation Italia, la riforma della giustizia è qualificata, al pari della riforma della pubblica amministrazione, come una riforma “orizzontale “ destinata ad investire una pluralità di gangli del sistema-Paese per migliorarne la qualità e l’efficienza.
Nel maggio scorso la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, davanti alle Commissioni Giustizia della Camera e Senato, sottolineava che “sulla durata dei processi il Governo si gioca tutto il Recovery. Quanto ad investimenti la giustizia vale l’1%., circa 2,3 miliardi di euro. Se falliamo sarà travolto il 100% del Recovery. La Commissione Europea ha imposto al governo italiano alcune condizioni per ottenere i 191 miliardi del fondo Net Generation EU. Per quanto riguarda la giustizia gli obiettivi sono chiari: in cinque anni dobbiamo ridurre del 40% i tempi dei giudizi civili e il 25% dei giudizi penale”.
Dunque soldi in cambio di riforme. Del resto il Presidente Draghi ha concordato con la Commissione EU e sottoscritto il crono-programma del PNRR( Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che sta rispettando con la sua ormai nota forza magnetica.
Il settore della giustizia è un capitolo fondamentale del sistema Italia, perché attiene ai diritti fondamentali dei cittadini e incide sulla competitività del Paese: l’incertezza e l’inefficienza del sistema giudiziario hanno prodotto effetti negativi sulla crescita dimensionale delle imprese, ha condizionato gli investimenti esteri ed inciso sulla vita delle persone siano essi autori o vittime di reato.
Il testo di legge che entrerà in vigore entro la fine di ottobre, si articola su cinque ambiti di intervento prioritario.
L’ufficio del processo, ovvero un team qualificato che affiancherà il giudice per agevolarlo nelle attività preparatorie dei provvedimenti;
la riforma del processo civile che dovrebbe articolarsi sull’estensione degli strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie e sul miglioramento delle procedure esecutive. Non c’è nulla di rivoluzionario, anzi come si sottolinea nel PNRR si esclude proprio “una modifica radicale dell’impianto del processo civile che provocherebbe negative conseguenze…per gli operatori”;
la riforma tributaria che mira essenzialmente a ridurre il numero dei ricorsi in Cassazione;
la riforma del processo penale e del sistema sanzionatorio. La Ministra ha studiato nuove regole per la prescrizione;
la riforma dell’ordinamento giudiziario, finalizzato a migliorarne l’efficienza e garantire l’esercizio autonomo della magistratura.
Oggi dobbiamo fare i conti con una giustizia quotidianamente in affanno , senza adeguate risorse, che spesso esplica il proprio servizio in territori difficili e in uffici dove si vivono grandi disagi in termini di carenza di organico e di un arretrato storico.
Sono temi enormi non più procrastinabili e tuttavia procrastinati. A tale proposito è importante mettere in evidenza che non si è compreso che l’obiettivo della Commissione E.U. in questa fase non era quello di definire un programma più o meno vago di riforme processuali e dell’ordinamento giudiziale. Si trattava, invece, di individuare aspetti del sistema giustizia che richiedevano un intervento adeguato sul piano degli investimenti finanziari e rendere più agevole la celebrazione dei processi.
L’Unione Europea non presta risorse per tracciare una riforma del processo e dell’ordinamento giudiziario, materie che esulano dalle sue competenze secondo i Trattati, ma per dotare i tribunali di risorse adeguate a rendere la giustizia efficiente e con tempi più rapidi.
Le risorse previste stanziate per la giustizia sono inadeguate (2,3 miliardi di euro) destinate essenzialmente per la creazione degli “uffici per il processo”. Questo vuol dire che l’Italia destina per la ripresa della giustizia meno dell’uno per cento.
Una riforma per ..o contro i magistrati?
Purtroppo negli ultimi decenni le politiche giudiziarie sono state ostaggio dell’eterno conflitto tra classe politica e magistratura. Politiche caratterizzate dapprima dal “garantismo selettivo” della stagione delle “leggi ad personam,” rivolte soprattutto a garantire l’impunità per i reati dei cosiddetti colletti bianchi; poi dall’abuso del diritto penale per criminalizzare in primis le politiche migratorie.
Una riforma che risente di un contesto politico complesso, con una maggioranza anomala, ricomposta con un‘alchimia, al solo scopo di governare l’emergenza economica e sociale derivata dal Covid-19.
Un provvedimento che Camera e Senato hanno dovuto approvare in tempi strettissimi con due voti di fiducia, senza la possibilità di alcun dibattitto, senza che nessuno abbia sollevato problemi. Il Parlamento ormai funziona da notaio delle scelte fatte dal Governo.
La riforma Cartabia non nasce dal nulla, trova i suoi presupposti essenzialmente sul pregiudizio verso i magistrati, basato sul luogo comune che non lavorino abbastanza(o almeno abbastanza ).
Essa è caratterizzata da un corposo pacchetto di modifiche al disegno di legge delega del ministro Bonafede, approvate appena nel 2019, che è intervenuto drasticamente a cambiare le regole che disciplinano i tempi della prescrizione.
Dal punto di vista dei rapporti tra Istituzioni si può dire che la riforma Cartabia è una riforma “imposta” dall’EU..
Nel merito la Ministra ha nominato una Commissione di studio presieduta da Giorgio Lattanzi, Presidente emerito della Corte Costituzionale, con il compito di esaminare il D.D.L presentato dal ministro Bonafede e delineare le misure più idonee per assicurare maggior efficacia al processo penale.
Nella relazione finale si individuavano i temi di maggior interesse commentandone gli aspetti positivi e criticità. La riforma modifica molti aspetti del processo penale e non riguarda solo la regola della prescrizione.
Interviene sull’ammodernamento del processo, prevede controlli più stringenti sulla correttezza dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, decide sui criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale, incentiva i riti speciali, semplifica le procedure per i giudizi di impugnazione, qualifica meglio il rito abbreviato.
Si prevede, inoltre, l’estensione della delega per il processo telematico, viene stabilita la videoregistrazione durante gli interrogatori per le persone indagate , viene definito un “piano per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia, anche al fine di garantire l’adeguata dotazione tecnologica dei servizi tecnici e informatici del ministero”.
Nella relazione e nell’articolato normativo allegati al Rapporto Lattanzi viene, in modo consapevole, affermato che “la riduzione dei tempi dei processi penali non si proclama né si realizza per decreto, ma può scaturire solo da una pluralità di interventi innovativi e coraggiosi che potranno incidere sulle diverse fasi del processo”.
Tutto ciò significa intervenire sui tempi del processo, affrontare e dare risposte concrete a nodi cruciali mai affrontati adeguatamente: ovvero “un incremento del numero dei magistrati e degli operatori del settore giustizia costituisce un fattore indispensabile per il conseguimento degli obiettivi previsti dal PNRR”.
La fotografia della crisi della giustizia
Del resto che sia necessario intervenire ce lo dicono i numeri che fotografano una situazione drammatica e inaccettabile. Già alcuni dati, evidenziati dal Rapporto Cepej nella prima parte della nostra analisi, davano l’esatta dimensione della drammaticità del fenomeno.
I dati di oggi ci confermano, in modo significativo, quanto sia indispensabile intervenire con una riforma “vera.”
Il numero di prescrizioni dichiarate dalla ‘autorità giudiziaria è pari all’8,7% a livello nazionale; nelle corti di appello è pari al 25,8%.
Nel nostro ordinamento al 2020 pendevano 1,630 milioni di processi penali e la nostra capacità di gestire questi procedimenti è stata considerata molto modesta. (Rapporto CEPEJ)
Le statistiche aggiornate al 2019 mostrano come il 9% dei processi penali vengono definiti con la prescrizione, secondo le rispettive scadenze: il 38% degli stessi si prescrive nelle indagini preliminari, il 32% nel giudizio di primo grado, 26% in grado di appello, e lo 0,8 in Cassazione.
Per i processi penali i tempi per il primo grado sono pari a 361 giorni a fronte di una media europea di 144. Le cose vanno peggio in secondo grado dove i tempi in Italia sono 1.266 giorni, contro la media europea di soli 144 giorni.
Tutto ciò si traduce in un sovraccarico di lavoro per ciascun magistrato; in media gli vengono affidati ben 1.737 casi l’anno, contro una media europea di 578. Questo sovraccarico di lavoro rallenta le decisioni, e talora determina l’abbandono, nei fatti, dei casi che non si riesce a seguire.
La necessità del potenziamento degli organici è suffragato anche dal dato che i PM sono 3,7 ogni 100.000 mila abitanti , a livello europeo sono 12,3.
Le carenze riguardano anche il personale ausiliario, essenzialmente cancellieri e ufficiali giudiziari. Nel rapporto Cepej si evidenzia che in Italia sono presenti 35 ausiliari ogni 100.000 abitanti, mentre la media europea è 68,7.
In queste condizioni giungono a conclusione esclusivamente i reati più gravi, mentre le infrazioni minori non giungono quasi mai a processo. In tale contesto una riforma rivolta a conferire maggiore efficienza alla giustizia senza un parallelo aumento degli organici è fisiologicamente destinata all’insuccesso.
Né può essere risolutivo realisticamente il Rafforzamento dell’Ufficio per il processo, come proposto dalla ministra, che potrà essere utile nei tribunali medio-grandi, mentre nelle piccole realtà non produce alcun effetto positivo.
Di qui la scelta della Commissione Lattanzi di formulare un insieme di proposte operative con l’obiettivo di “una incisiva deflazione del carico giudiziario; un più ampio accesso alle alternative al processo; filtri più rigorosi dei processi destinati al dibattimento, significativa riduzioni delle impugnazioni “.
Le “priorità” specchio delle debolezze della politica
Non poche preoccupazioni nascono dalla delega al Governo di “ prevedere che gli uffici del pubblico ministero, nell’ambito di criteri indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità” al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre.
Per anni, la legislazione penale è stata “usata dalla politica” per anestetizzare le paure sociali, attraverso una proliferazione di reati perseguiti penalmente, allo scopo da dare ai cittadini l’illusione che uno strumento repressivo potesse garantire i diritti e la sicurezza pubblica. Aumentavano, invece, le inefficienze e i ritardi insostenibili per un Paese democratico.
In attesa di coraggiose riforme che vedano una depenalizzazione di troppe fattispecie di scarso valore, resta il tema di quale sia l’organo chiamato a decidere i criteri di priorità: un organo legittimato democraticamente dal momento che si tratti di scelte che indirizzano la “politica dei reati”, ovvero di stabilire quale domanda di giustizia è meritevole di risposta oppure no.
I criteri di priorità, è bene sottolinearlo, sono previsti dal codice di procedura penale, ma con una finalità peculiare tutta processuale. Valgono a regolare la formazione dei ruoli di udienza, vale a dire l’ordine di trattazione dei processi.
L’attribuzione al Parlamento di un simile potere di scelta, invece, non sembra funzionale ad assicurare maggiore celerità ai processi penali, al contrario si corre il rischio di un’ amministrazione della giustizia esposta alla volontà delle contingenti maggioranze politiche.
Oppure si finisce per disegnare una giustizia penale a geografia variabile, per la quale il confine fra un circondario e l’altro può significare guadagnare l’impunità per taluni reati.
Inoltre si pongono questioni di ordine costituzionale. C’è il rischio di entrare in rotta di collisione con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e con il principio di separazione dei poteri.
Le misure alternative : i passi indietro della Ministra
In questo contesto la ministra ha proposto nuove regole per la prescrizione; tempi allungati per i reati più gravi e possibilità di proroghe; ampliamento della messa alla prova e della conversione delle condanne in multe; più spazio al patteggiamento.
L’attenzione si è tutta concentrata soprattutto sul primo punto, quello sulla prescrizione che si lega alla riforma Bonafede, che da gennaio 2020 ha eliminato “la tagliola” ai processi, dopo la sentenza di primo grado.
E’ evidente che il fattore tempo viene preso come punto di riferimento e ciò significa mettere sotto la lente d’ingrandimento l’istituto della prescrizione che, nella sua definizione ed operatività originale, è stata pensata e voluta per evitare che fatti lontani, dimenticati nel tempo, fossero riesumati quando l’interesse della società ad adottare strumenti punitivi è ormai esaurito.
La prescrizione, quindi, riguarda solo la tempestività con cui viene promossa l’azione penale o civile. A processo iniziato, formulata l’imputazione da parte del PM, la prescrizione non avrebbe più motivo di esistere. Questo avviene in quasi tutti i Paesi Europei.
La Commissione Lattanzi ha fatto due ipotesi in luogo del blocco dopo la sentenza di 1° grado: la prima incide sulla sospensione del termine prescrizionale, ovvero se in appello conferma la condanna, la prescrizione è sospesa; la seconda, più radicale, si prevede che il corso della prescrizione cessi definitivamente con l’esercizio dell’azione penale, ovvero quando il PM eserciti tempestivamente l’azione penale Questa era una coraggiosa proposta innovativa fatta dalla Commissione Lattanzi che facciamo nostra.
Per puro compromesso politico, la riforma Cartabia ha lasciata intatta la prima parte del DDL Bonafede, mantenendo la prescrizione del reato solo fino al 1° grado, sia nel caso di sentenza di assoluzione sia di condanna.
Viene, inoltre, previsto un nuovo istituto, l’improcedibilità per superamento dei termini di durata dei giudizi di impugnazione. Si stabilisce che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, e del giudizio di cassazione entro un anno, costituiscono motivo di improcedibilità dell’azione penale.
Superati questi termini, previo annullamento della sentenza impugnata dichiarare il non doversi procedere. Il processo muore. Nel caso di pronunciamenti più complessi questi potranno durare rispettivamente fino a 3 anni e a 18 mesi, ma solo su richiesta del giudice.
I termini, che decorrono dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza, possono essere aumentati rispettivamente di un anno e di sei mesi per i soli reati particolarmente gravi previsti dalla legge come devastazione, concussione, reati contro la PA, come la corruzione, reati gravi come mafia e terrorismo.
Perseguire la strada della improcedibilità significa che: a) tutti proporranno appello, anche quando la condanna è contenuta al minimo, poiché in non pochi distretti si confiderà nel decorso del termine biennale; b) poiché il nuovo regime vale per fatti successivi al 1 gennaio2020, le corti tratteranno con priorità questi processi, e abbandoneranno altri giudizi al loro destino.
In questo modo si realizzeranno nei fatti due tipologie di amnistie senza il coinvolgimento del Parlamento: a) la prima generalizzata, riguarderà i processi antecedenti il 1 gennaio 2020; b) la seconda , differente distretto per distretto secondo i tempi impiegati per il processo d’appello.
In questo contesto, se costruiamo idealmente un quadro sinottico a tre colonne che vede messi a confronto il disegno di legge delega di Bonofede, l’articolato normativo proposto dalla Commissione Lattanzi (incaricata dalla ministra di studiare gli interventi e gli emendamenti opportuni), e le proposte del Governo, si possono cogliere notevoli differenze, in particolare sulla diversa attenzione riservata alle misure in grado di garantire una ragionevole durata dei processi.
Almeno su tre versanti gli emendamenti proposti dalla Commissione Lattanzi al disegno di legge Bonafede, ha visto la Ministra fare, inspiegabilmente, passi indietro, mettendo a repentaglio il raggiungimento degli obiettivi definiti nel PNRR.
- a) In particolare negli emendamenti ministeriali non c’è traccia dell’istituto dell’archiviazione meritata, istituto che in numerosi altri Paesi ha dato buona prova.
Nei casi con pena detentiva non superiore a 4 anni, viene proposta la possibilità di “non esercitare l’azione penale, laddove appaia oggettivamente superflua, perché l’indagato (o l’imputato) ha posto in essere condotte positive nei confronti della comunità e/o della vittima, idonee a compensare l’interesse pubblico e privato leso”.
- Tra le sanzioni sostitutive della pena detentiva , non è prevista la possibilità dell’affidamento in prova al servizio sociale che nel tempo ha dato buona prova, anche del punto di vista della prevenzione
- Sui procedimenti speciali e in particolare sul patteggiamento, che prevedeva una notevole riduzione della pena, la proposta del Ministero si attesta su scelte estremamente caute e restrittive rispetto alla proposte della Commissione Lattanzi.
- Del tutto abbandonata è la prospettiva di una drastica riduzione dei giudizi di appello, quindi la modifica del sistema delle impugnazioni da perseguire attraverso le numerosi ipotesi suggerite dalla Commissione.
Si potrebbe prevedere, ad esempio, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione per il PM,. introdurre un appello a critica vincolata, rendendo tassativi i motivi dell’appello, ed infine. estendere l’appello incidentale del PM.
- Un altro strumento che poteva dare il segno di un processo autenticamente riformatore è quello della depenalizzazione.
Va segnalato, invece, come positivo e coerente, l’approccio culturale con i dettami costituzionali, in particolare con la missione rieducativa della pena e il superamento della concezione carcerocentrica della giustizia.
E’ anche prevista una norma transitoria secondo la quale “le disposizioni in materia di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima, secondo la proposta del Governo, si applicano solo nei procedimenti di impugnazione che hanno come oggetto reati commessi a far data dal 1°gennaio”.
Purtroppo c’è da sottolineare che non vengono compresi i delitti contro l’ambiente , in particolare contro l’inquinamento e il disastro ambientale che la legge 68 sugli ecoreati sanzionava con il doppio dei tempi previsti per la prescrizione.
Il giusto processo ?… Solo per i ricchi
Con la scelta di utilizzare la improcedibilità, la Ministra ha proposto una norma che, oltre ad entrare in rotta di collisione con l’art. 112 della Costituzione, cioè l’obbligatorietà dell’azione penale, è irragionevole perché colpisce con un’unica sanzione processuale situazioni molto diverse fra loro trascurando la diversa gravità dei reati, infrangendo il principio di uguaglianza che implica una rinuncia all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità.
L’improcedibilità, inoltre, non risponde alle esigenze del diritto europeo, ove non si richiede che il processo finisca entro un certo termine, ma che piuttosto finisca utilmente, ossia con un accertamento del fatto.
Anche la Commissione UE aveva espresso una valutazione positiva della legge delega di Bonafede che bloccava la prescrizione dopo la sentenza di 1° grado.
Se volessimo essere maliziosi si potrebbe dire che chi ha voluto questa riforma avesse secondi fini e non l’interesse per l’efficienza della giustizia. Del resto si consideri che non è questo quello che chiedeva l’UE, che si preoccupa soprattutto del processo civile e della situazione nelle carceri.
Il giudice Caselli, nell’esprimere alcune sue valutazioni preoccupate sulla riforma Cartabia, osservava che si corre il pericolo di sancire una nuova regola: “il tempo al posto del giudice; il tempo al posto della sentenza. Il tempo dell’ingiustizia. Perché il tempo è manipolabile. Il tempo non è neutrale come il giudice.”
Queste valutazioni ci portano ad una amara conclusione.
A causa del tempo il nostro sistema penale ha accettato la coesistenza di due codici: uno per i “galantuomini”, l’altro per gli straccioni. Uno per le persone perbene, l’altro per i poveri cristi.
Nel primo caso, grazie al tempo si finisce per farla franca. Grazie ad una difesa adeguatamente remunerata i difetti strutturali del sistema sono lo strumento per portare a casa il risultato. Nel secondo caso, il giudizio segna irrimediabilmente la vita delle persone. Con buona pace dell’uguaglianza formale e di quella sostanziale.
Occorrono interventi di riforma ambiziosi, audaci in grado di assicurare a questo Paese una giustizia efficiente, capace di conciliare tempi congrui con una adeguata tutela dei diritti e delle persone.
Oggi è tempo della Giustizia, quella giustizia amministrata in nome del popolo di cui la riforma Cartabia non tiene conto. Le Istituzioni si chiudono a riccio ed esprimono un potere autoreferenziale e il messaggio che viene trasmesso è che la giustizia sia uguale per alcuni e non per tutti. Abbiamo bisogno, invece, di una giustizia uguale per tutti a prescindere dalla posizione sociale.