Il Premierato in doppiopetto, dal sogno di Almirante a quello della Meloni

 

 

di Ugo Balzametti

Un poco di storia 

La Costituzione non è di destra né di sinistra, è di tutti, è le nostre radici, la nostra storia, il nostro presente e il nostro futuro. 

Sono passati quarant’anni da quando Giorgio Almirante, intervistato da Enzo Biagi, spiegava le motivazioni del suo convinto sostegno, già espresso durante i lavori della Costituente nel 1947, alla revisione della forma di governo in senso presidenzialista.

La necessità è di “liberare il governo dalla servitù della partitocrazia facendo in modo che il presidente del Consiglio non sia tratto dal forcipe dei partiti, ma venga nominato direttamente da un Capo dello Stato eletto a suffragio diretto (G. Almirante)”.      Un obiettivo questo che stava nel DNA della Fiamma tricolore fin dalla prima ora della sua nascita.

Giorgia Meloni, sua erede, dopo aver portato la  destra post-fascista alla guida del governo,   vuole portare l’attacco al cuore  della nostra Carta Costituzionale nata dalla Resistenza.

La leader di Fratelli d’Italia, cresciuta a pane, tricolore e amor di patria, non ha paura di riesumare il vecchio cavallo di battaglia del MSI: il presidenzialismo, ammorbidito ad arte per non entrare in rotta di collisione con il Quirinale.

In campagna elettorale la destra proponeva il presidenzialismo o semipresidenzialismo alla francese. L’opposizione, e anche  parte della stessa maggioranza, ha spinto Giorgia Meloni a passare al piano B  e cioè il premierato.

L’obiettivo  è totalmente ideologico. A prescindere da qualsiasi valutazione istituzionale, tecnica o funzionale, Giorgia Meloni vuole l’elezione diretta del Capo del governo. Il capo dell’esecutivo deve essere eletto dal popolo. E’ un obiettivo  che vuole portare a casa ad ogni costo. 

Il problema di Giorgia Meloni  non è qualche sua gaffe o di qualche membro del suo entourage. Il problema dell’on. Meloni è lei stessa, il suo modo di interpretare il proprio ruolo, il contenuto che lei stessa istintivamente è portata a dargli. 

Non è sufficiente invocare la Patria, il tricolore o urlare dal palco “ io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana e sono una donna”. Questi valori devono essere vissuti con modalità e atteggiamenti coerenti, con toni giusti, con i fatti. Mentre fuori dall’Italia la premier è riuscita a ritagliarsi un ruolo tutto sommato positivo, nella realtà indigena non riesce a tagliare i ponti con il suo passato. 

Infatti, deride i suoi interlocutori in sede parlamentare, interrompe, alza  i toni per cercare l’applauso della sua parte politica, recrimina sulle vere o presunte passate malefatte degli avversari, mostra pregiudizio e insofferenza verso gli organi di controllo istituzionali (leggi la Corte dei Conti). Sono tutti  aspetti che si manifestano in modo quasi naturale.

Ogni qualvolta qualcuno la contraddice o critica il suo operato le reazioni sono sempre nervose , arroganti tanto che ormai le sue interviste sono sempre senza contradditorio.

Il limite della Presidente del Consiglio è quello di aver difficoltà di rivolgersi al Paese, di parlare a tutti gli italiani anziché solo al popolo che l’ha votata o ai suoi compagni (camerati) di partito. 

Non è un caso che nel suo cerchio magico sono ammesse solo o persone di famiglia o persone  di cui si fida ciecamente, che con lei hanno fatto lo stesso percorso  politico nella famosa sezione romana  del MSI di Colle Oppio.

La madre di tutte le riforme

Il premierato scelto dal Capo del governo è un modello di esecutivo meno appariscente di quello del presidenzialismo o del semipresidenzialismo, ma non certo meno pericoloso per gli equilibri e la limitazione dei poteri propri di una democrazia costituzionale.

Il governo Meloni interviene su punti delicati e decisivi della Costituzione che alterano gli equilibri dei poteri dello Stato, cardine della democrazia,  senza  affrontare in alcun modo il tema  dei cosiddetti  “contrappesi”.

Con la riforma il Presidente  dell’esecutivo verrà eletto a suffragio universale, in un solo turno. Tale elezione  avverrebbe congiuntamente a quella delle due Camere.  Il premier dovrà essere necessariamente un parlamentare.

Giorgia Meloni ha  dato a questo progetto costituzionale un ruolo centrale, l’ha definito  “la madre di tutte le riforme”, non solo per nascondere la pochezza delle politiche di governo, gli scarsi risultati nella politica economica, ma soprattutto per acquisire un risultato che parli alla destra, al suo popolo e abbia lo scopo di far uscire l’Italia dalla Costituzione del 1947, nata  sulle ceneri della tragedia della seconda guerra mondiale e della dittatura fascista.

 La premier  non si sente figlia di questa Costituzione e non può più nascondere la sua aspirazione a realizzare un progetto di democrazia plebiscitaria concentrando tutto il potere nelle sue mani .    Per questo è portata a magnificare il recente risultato delle ultime elezioni politiche, affermando che la maggioranza degli elettori le avrebbe assegnato questo compito.

Questa è una delle tante falsità della destra, affermare che ha ottenuto il 44% dei voti degli italiani. In realtà la destra ha ottenuto il 28% degli aventi diritto al voto perché si è verificato un alto astensionismo avendo votato solo il 63,9% degli italiani e, solo grazie al premio di maggioranza del 15%, ha eletto il 59% dei deputati e senatori.

 Le opposizioni, in questo frangente, non sembrano aver ancora metabolizzato appieno la gravità di questo attacco alla Costituzione e alle regole democratiche. Se continuano a fare una opposizione sterile, Giorgia può dormire sonni tranquilli per lungo tempo. 

L’elezione diretta del premier

Mercoledì 24 aprile scorso la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha terminato l’esame del disegno di legge con cui il governo Meloni ha proposto di modificare la Costituzione, inserendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (il cosiddetto “premierato”). 

La premier ha sempre affermato che questo modello di esecutivo ha lo scopo di stabilizzare  la vita politica italiana, dopo anni e anni di governi brevi, brevissimi, balneari, di minoranza, governi deboli fin dalla loro nascita che sono stati una caratteristica negativa della democrazia post-fascista.

C’è da  osservare, però, che la stabilità non fa necessariamente rima con buona politica  e benessere diffuso tra i cittadini, così come l’instabilità non si traduce automaticamente in recessione o inefficienza.

Nella sua versione originaria il Ddl costituzionale interveniva su due fronti: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, e  la cosiddetta “disposizione anti ribaltone”  .

L’elezione diretta del Presidente del Consiglio, contestualmente all’elezione delle due Camere, è una misura che ci fa tornare indietro di qualche anno quando Berlusconi voleva istituzionalizzare il capo della coalizione.

Una simile proposta lega la composizione del Governo alla personalizzazione del Capo dell’esecutivo, incrinando il principio del libero mandato parlamentare punto focale della rappresentanza politica. Con buona pace dell’art. 67 della Costituzione (ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato).

Il testo proveniente dalla Commissione parlamentare ha modificato in parte proposta approvata nel novembre dello scorso anno dal Consiglio dei Ministri. 

Questi, in sintesi, i contenuti principali della legge di riforma

  • ELEZIONE DIRETTA: L’articolo 92 della Costituzione sarà sostituito dal seguente: Il governo è composto dal Presidente del Consiglio e dai ministri, che insieme costituiscono il Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio sarà eletto tramite suffragio universale e diretto per un mandato di cinque anni.
  • Il Presidente del consiglio, eletto direttamente dal popolo, dovrà presentarsi ugualmente alle Camere entro 10 giorni dall’incarico per ottenere la fiducia iniziale.
  • Questa elezione avviene congiuntamene a quella delle Camere, su scheda unica. . 
  • Al premier eletto dai cittadini potrà succedere un altro presidente del Consiglio scelto dal Capo dello Stato. L’eventualità è legata a circostanze eccezionali: dimissioni, impossibilità di proseguire a governare, impedimenti gravi e morte. Fratelli d’Italia avrebbe voluto lo stralcio di questa opzione per riportare alle urne i cittadini. La Lega invece ha spinto perché l’opzione venisse inserita nella bozza.

  •  
  • TETTO DI DUE MANDATI: Il presidente del Consiglio potrà rimanere in carica per non più di due legislature consecutive, salvo il caso in cui nella legislatura precedente abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Inoltre, le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio avverranno contemporaneamente.
     
  • PREMIO ELETTORALE: La legge disciplinerà il sistema per l’elezione delle Camere e del presidente del Consiglio, prevedendo un premio su base nazionale che garantirà una maggioranza dei seggi in entrambe le Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività. Il presidente del Consiglio sarà eletto nella Camera in cui ha presentato la candidatura.
  • Sul premio di maggioranza, che inizialmente era previsto al 55% dei parlamentari nelle due Camere, si è aperta una discussione e lo stesso verrà deciso direttamente nella legge elettorale che verrà presa in esame solo successivamente alla riforma del premierato.

La contestazione era legata al fatto che non esisteva una soglia minima per avere il premio né ipotesi di ballottaggio. Ciò significava che, in caso di più candidati e più coalizioni, come per i sindaci dei piccoli comuni sotto i 5.000 abitanti, il primo prendeva il 55% dei deputati e dei senatori. 

Dopo la modifica in Commissione, anche da parte di alcune forze di maggioranza, si propone il ballottaggio tra i primi due candidati di coalizione nel momento in cui non si raggiunga una soglia minima percentuale tra il 42-43% di uno dei candidati alla premiership.
 

  • NOMINA E REVOCA DEI MINISTRI: Il Presidente della Repubblica conferirà al presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo e nominerà e revocherà, su proposta di quest’ultimo, i ministri.
  • Il Capo dello Stato “non nomina” più ma “conferisce”  il mandato all’eletto.
     
  • SEMESTRE BIANCO: Non sarà più previsto per consentire al presidente della Repubblica, in circostanze eccezionali, di sciogliere le Camere in qualsiasi momento. (art. 88 della Costituzione)

Nel nuovo testo, inoltre, verrà meno la possibilità che un voto negativo ad un provvedimento sul quale è stata posta la fiducia, possa portare alle dimissioni del presidente del Consiglio. Resta la possibilità che il premier possa venire sfiduciato dalla sua maggioranza, ma solo con una mozione motivata ed esplicita. 

Dopo tale mozione di sfiducia, il premier avrà la facoltà di prendersi una settimana di riflessione per poi chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento delle Camere. Oppure potrebbe dimettersi, passando la palla nelle mani del Capo dello Stato che avrebbe facoltà di nominare un secondo premier indicato dalla maggioranza. Tirando le somme, perché un premier venga sfiduciato si renderà necessaria una frattura insanabile nella maggioranza di governo.

Non “basta che venga bocciata una legge per sfiduciare il premier, serve una scelta della maggioranza”, sintetizza il ministro Calderoli (Affari regionali). Ma non è tutto: il secondo premier sarebbe privo del potere di scioglimento.

Sono previste, inoltre altre novità: potrà proporre al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri.

Sparisce la norma sul semestre bianco del Capo dello Stato sancita dall’articolo 88 della Costituzione, secondo il quale “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. 

Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. In caso di mozione di sfiducia al premier, il presidente della Repubblica è obbligato a sciogliere le camere fino alla fine del suo settennato.

La prima formulazione si presentava molto confusa  e in Commissione sono stati approvati numerosi emendamenti: in particolare si prevede un scioglimento automatico solo  in caso di morte o di impedimento permanente del premier.  Ma andiamo con ordine.

Nonostante  si cerchi di mascherare la realtà, nella sostanza, il potere di sciogliere il Parlamento è nelle mani del Presidente del consiglio. Al Capo dello Stato rimane solo un compito notarile.

Ciò che emerge dal testo approvato dal governo è la conferma di un antiparlamentarismo che fa parte della tradizione della destra rappresentata dalla Meloni.

 E’ successo nel tentativo nell’introdurre il ”vincolo di mandato” che piace molto alla presidente. E  con la spericolata interpretazione dell’articolo 1 della carta Costituzionale quando afferma” la sovranità appartiene al popolo “,dimenticando la seconda parte che recita !”nei limiti e nelle forme della Costituzione”

Con la Riforma c’è il  superamento della condizione del premier come primus inter pares., Iil Presidente del consiglio viene eletto a suffragio universale in un solo turno, ed ha il potere dell’indirizzo politico dell’esecutivo.  E’ una novità importante.

L’elezione diretta del Presidente del Consiglio alimenta inevitabilmente un dualismo istituzionale anomalo, una sorta di semipresidenzialismo atipico, a parti invertite: da un lato il presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento con funzioni di regolazione e di garanzia, dall’altro il capo del Governo con funzioni di guida politica e forte legittimazione popolare.

Non c’è solo l’ovvio rilievo che le differenti modalità di investitura delle due figure daranno al premier una forza politica ben maggiore di quella del Presidente della    Repubblica ma, con la riforma, il Capo dello Stato non nominerà più il Presidente del Consiglio, non avrà la possibilità di sciogliere una sola delle Camere e non potrà nominare i senatori a vita. Avrà solo funzioni notarili.

La nuova legge elettorale

Sarà compito di una specifica legge elettorale – ancora da approvare-  regolare “il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca la maggioranza dei seggi in ciascuna delle due Camere ai candidati  collegati al Premier, nel rispetto del principio di rappresentatività”.

In prima istanza  l’attuale governo aveva pensato di inserire il premio di maggioranza nella Costituzione (55%), senza individuare alcuna soglia minima. Tale opzione è in netto contrasto con l’art. 48 della Carta che afferma il principio fondamentale dell’uguaglianza del voto, lo stesso che portò all’annullamento delle due leggi elettorali del 2005 e del 2015.

Come sancito dalla Consulta, “le formule elettorali possono manipolare il risultato del voto, ma non fino al punto di stravolgerlo completamente”  (Francesco Pallante) 

Pluralismo e uguaglianza  del voto soccombono a fronte del premio di maggioranza;  nel contempo la scelta del capo soffoca il pluralismo e svuota il senso del voto. I cittadini si esprimono una delega al capo, poi per cinque anni, non hanno più voce.

Il modo con cui verrà risolta la questione del premio di maggioranza e la previsione o meno di una soglia di riferimento, che al momento non è prevista,  possono determinare effetti disastrosi sul piano della rappresentanza istituzionale. 

Infatti se i candidati alla presidenza del Consiglio sono due, è chiaro che l’eletto risulterà da un voto maggioritario, e non sarà necessario stabilire alcuna soglia minima di consensi elettorali per godere del premio.

Ma se il sistema per eleggere il presidente vede il confronto tra più candidati (cosa tutt’altro che impensabile in una situazione politica come l’attuale), il premio potrebbe andare anche ad una maggioranza relativa molto bassa.  

Questo accadrebbe se, in un panorama politico molto frammentato, il candidato Presidente del consiglio più votato prendesse, ad esempio, solo il 25% dei voti.  Mancando una soglia “anti-stravolgimento” ( indicativamente , 40 o 45%) al di sotto del quale il premio non potrebbe  scattare, si avrebbe un assurdo democratico di un Capo del governo eletto da una  minoranza.

Il tema è divisivo. Su questa  proposta  è nato un aspro dibattito politico sollevato sia dalle opposizioni sia da moltissimi costituzionalisti, tanto che il  governo, al momento, l’ha tolto dal tavolo, optando per una  formulazione più generica: un premio, su base nazionale, che garantisca una maggioranza dei seggi. Sarà poi compito del Parlamento scrivere una nuova legge elettorale che comunque dovrà rispettare il principio di rappresentatività, come prescrive la Consulta.  

I rischi per la democrazia in Italia

Ormai la campagna elettorale per le elezioni europee si è avviata e sarà dominata o largamente influenzata dal tema del premierato. 

Per effetto del sistema delle liste elettorali bloccate, che risalgono al 2005, all’epoca del governo Berlusconi e mai modificato, l’Italia ha un sistema elettorale (per  le Camere) che non consente , al cittadino di scegliere i suoi rappresentanti in Parlamento.

E’ macroscopica la contraddizione tra le aspirazioni del premier di essere eletto dal popolo e i parlamentari che vengono nominati dai segretari di partito..

Nonostante questo assurdo sistema  abbia dato vita a parlamenti “di nominati” dalle segreterie dei partiti  ed abbia sfornato parlamentari spesso del tutto privi di ogni rapporto con gli elettori, coloro che propongono il premierato non si preoccupano  di dire  quale nuovo sistema elettorale sarà adottato.

Le principali ragioni di critica e fattore di grande preoccupazione nascono però dalle incognite che condizionano altri elementi del quadro istituzionale. 

Mettere al centro del sistema politico-istituzionale del governo  la sua maggioranza avrà ricadute a cascata sugli organi di garanzia e di controllo previsti in Costituzione.

Il premier avrà un compito determinante nell’elezione del Presidente della Repubblica. Infatti dopo il terzo scrutinio (forse sarà portato a sei) per eleggere il Capo dello  Stato sarà sufficiente la maggioranza assoluta dell’assemblea ( art. 83  Cost.),obbiettivo a portata di mano di una maggioranza di governo collegata al premier. Sarà sufficiente “imbarcare” una decina di parlamentari fuori della maggioranza..

L’elezione di un Presidente della Repubblica politicamente omogeneo alla maggioranza di governo, destinata a diventare una costante quando il premierato entrerà a regime, farà in modo che la nomina di ben dieci giudici costituzionali – cinque eletti dal Parlamento e cinque nominati dal Presidente della Repubblica – sarà circoscritto nel contesto politico e culturale della maggioranza parlamentare, escludendo  a priori le opposizioni. 

 La logica finora espressa dalla Meloni è di non fare prigionieri e occupare tutte le poltrone possibili.

Analoghi rischi si verificheranno sul versante del CSM. Per la sintonia che c’è tra la maggioranza di governo e il Capo dello Stato, che è anche presidente del CSM,  si ridurrà il tasso di pluralismo che dovrebbe caratterizzare la composizione degli organi di garanzia.

Il combinato disposto del futuro premio di maggioranza al  55% e del diminuito numero dei parlamentari rende particolarmente agevole il raggiungimento della soglia dei 3/5 dei componenti del Parlamento in seduta comune, quorum deliberativo per l’elezione dei cinque giudici della Corte Costituzionale di nomina parlamentare e dei membri laici del CSM. 

L’elevato numero di seggi attributi al premier e alla sua maggioranza va letto unitamente al dato della riduzione del numero dei parlamentari, frutto di una recente modifica costituzionale che ha tagliato del 36,5% il numero dei componenti di entrambi i rami del Parlamento riducendo a 400 (erano 630) i seggi della Camera e  a 200 (erano 315) i seggi elettivi del Senato.

Non toccare la Costituzione 

I DDL governativi in via di approvazione sull’autonomia differenziata e l’elezione diretta del premier costituiscono un grave rischio per l’unità del Paese, per l’uguaglianza dei cittadini e per la democrazia parlamentare rappresentativa volute dalla Costituzione. Non sono provvedimenti complementari, ma parte di un unico disegno volto a concentrare il potere in poche mani.

Ci troviamo difronte ad una verticalizzazione dei poteri. Non è vero che l’autonomia regionale sia contraria alla logica “del capo”. Anzi avremo Presidenti di Regione trasformati in capi con il risultato di affidare la tutela dei diritti dei cittadini, delle loro istanze, dei beni comuni, a “due capi”: da un lato il capo della Nazione, dall’altro il capo della Regione.

In questo contesto l’unica riforma necessaria sarebbe quella di rafforzare il Parlamento, alimentando un circuito virtuoso con la definizione di una rappresentanza radicalmente plurale e conflittuale: un Parlamento come luogo di scontro e mediazione politica tra visioni del mondo diverse.

Alla centralità del Parlamento, minata dalla perdita di autorevolezza della classe politica, si vuole rispondere con la falsa idea che l’elezione del Premier restituisca potere agli elettori e renda più efficace la democrazia, semplificandone i meccanismi decisionali.

La democrazia, se vuole essere effettiva, vive di partecipazione e di conflitto, altrimenti è mero strumento di gestione del potere e del controllo sociale. Il rafforzamento del Parlamento è necessario, ma non sufficiente. 

Ruolo determinante  è la  forza dei conflitti sociali,  come necessario è il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale: è il disegno della democrazia conflittuale e sociale che lo scellerato connubio fra autonomia differenziata e premierato si appresta a cancellare. (Leggi “La secessione dei ricchi”)

Il ricorso ormai settimanale ai decreti legge  ( dovrebbero essere solo per urgenze), a voti di fiducia a raffica, a maxi emendamenti, hanno come  risultato che anche l’attività legislativa sta progressivamente passando nelle mani del Governo.

La pretesa di blindare le maggioranze parlamentari e di sterilizzare il ruolo delle istituzioni di controllo, è un  vestito cucito su misura del capo e il risultato sarebbe molto simile ad una sorta di “dittatura di una minoranza”

Se dovessero passare insieme le due riforme una mattina ci sveglieremmo con un altro sistema costituzionale. 

Invece di pensare a come delegare le 23 funzioni possibili alle regioni più ricche, sarebbe meglio far partecipare le regioni all’attività dello Stato Centrale. 

Quindi si potrebbe ipotizzare un sistema monocamerale della rappresentanza nazionale eletto con il sistema proporzionale a doppio turno, e la creazione di un Senato delle Regioni con funzioni di raccordo tra attività statale e quella territoriale. 

Inoltre è necessario che la Costituzione venga attuata tutta perché salvare il disegno istituzionale non è sufficiente senza concretizzare l’obiettivo della democrazia sociale.

Per alcuni costituzionalisti, nel tempo si potrebbe estremizzare la tendenza al leaderismo già abbondantemente presente nel nostro sistema. Più i partiti riducono il proprio peso politico più si caratterizzano come dimensione proprietaria dei capi partito, più sono ricattabili. Già nel 1947  i nostri padri costituenti affermavano che la sovranità non deriva dal popolo, ma gli appartiene e continua ad appartenergli, non trasferendosi con le elezioni.

Lo scontro politico che si  sta aprendo è pieno di insidie;  sottovalutare gli avversari è da sempre un errore e la proposta di premierato del governo è semplicemente inemendabile e quindi da respingere, anche con il referendum costituzionale, se non verrà fermata prima.

Accettare compromessi su questo terreno con le destre di governo sarebbe un grave errore di strategia politica. O peggio di ingenuità. O peggio ancora, un errore voluto.

Non occorre  essere giuristi per comprendere. in quale situazione ci troviamo, ma sarebbe ora che tutte e tutti, in nome della comune cittadinanza democratica, ci occupassimo di una questione tanto delicata, consapevoli della fragilità delle democrazie. 

Informazioni su Walter Bottoni

Nato il primo settembre 1954 a Monte San Giovanni Campano, ha lavorato al Monte dei Paschi. Dal 2001 al 2014 è stato amministratore dei Fondi pensione del personale. Successivamente approda nel cda del Fondo Cometa dei metalmeccanici dove resta fino 2016. Attualmente collabora con la Società di Rating di sostenibilità Standard Ethics.
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