di Antonio Damiani
Sull’Espresso di questa settimana un articolo parla di Maria Edgarda Marcucci (Eddi), condannata nel marzo del 2020 a due anni di sorveglianza speciale dal Tribunale di Torino.
La colpa di Eddi, che i combattenti curdi chiamavano “rosa canina”, è quella di aver combattuto nel nord della Siria contro Daesh (Isis) nelle fila delle YPJ, unità curde di protezione delle donne, brigate femminili delle unità di protezione popolare (YPG).
Ha la colpa cioè di aver messo in gioco il suo corpo e la sua vita mentre altri si limitavano a straparlare, magari in televisione, di scontro di civiltà e di valori occidentali.
Quante volte negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare della “questione curda”?
Del Rojava, della difesa di Kobane, della caduta di Afrin.
Del tradimento da parte dell’occidente di chi ha fermato fisicamente l’avanzata del califfato.
Di chi ha usato le unità combattenti curde per fermare l’Isis e non si è mosso per difendere la realtà del Rojava dalla vendetta turca. E così facendo ha sacrificato l’esperienza di confederalismo democratico e di autonomia democratica a vantaggio delle peggiori dittature dell’area.
Del resto stesso disinteresse le democrazie occidentali dimostrano nei confronti del teorico della democrazia curda, nonchè leader del Pkk, Abdullah Ocalan (Apo), detenuto da 21 anni nell’isola prigione turca di Imrali in assoluto isolamento.
Per chi volesse approfondire le sue idee Puntorosso Edizioni ha pubblicato “Gli eredi di Gilgamesh” e “Oltre lo stato, il potere e la violenza”.
Anche altri italiani hanno combattuto contro Daesh. Come Lorenzo Orsetti (Orso), fiorentino, morto a 33 anni, nel marzo del 2019, nella battaglia di Al Baghuz Fawqani.
Un uomo giovane, come giovanissima era Ayse Deniz Karacagil, raccontata, fra le altre, da Zerocalcare in “Kobane calling”, morta a 25 anni a Raqqa in combattimento. Ayse (Cappuccio rosso) era stata condannata dai tribunali turchi a 100 anni di carcere per le proteste di Gezi Park.
A inizio 2020 è stata allestita, presso il Museo Santa Giulia di Brescia una bellissima mostra, “Avremo anche giorni migliori”, con opere di Zehra Dogan, artista e giornalista curda trentunenne che ha passato tre anni nelle carceri turche per aver pubblicato sui social un suo dipinto contro la repressione. Tutte le opere esposte sono state fatte in carcere, sia su tessuto che su carta, anche di giornale, utilizzando oltre a penne e matite i materiali più disparati: cenere, te, sangue mestruale, curcuma, urina, frutta. Un flusso ininterrotto di dolore, orrore, speranza, rivolta, indomabilità.
Appare evidente l’insufficienza delle nostre azioni a protezione di chi ci ha protetto.
Bisognerebbe davvero che la bellissima frase tratta dalla lettera testamento di Orso non restasse solo sui murales in suo onore.
“E ricordate sempre che ogni tempesta comincia con una singola goccia. Cercate di essere voi quella goccia.”