di Ugo Balzametti
Dio, Patria, Famiglia. Una formula antica dei conservatori populisti che oggi viene brandita come una clava dalla destra del governo Meloni. Tralasciamo Dio e famiglia, concentriamoci sul concetto di Patria, di Nazione che la destra contrappone alla Repubblica antifascista, laica, unita. La destra italiana di FdI ha sempre sbandierato la fedeltà alla Patria.
Ma di quale Patria parliamo? Della patria fascista o della patria repubblicana? Non è una novità che negli ambienti neofascisti c’è chi non abbia mai accettato la sconfitta del fascismo e la nascita di un’Italia democratica e antifascista.
La destra in modo molto esplicito persegue l’obiettivo di stravolgere la nostra Costituzione: l’autonomia differenziata e il premierato sono i due principali obiettivi che il governo Meloni vuole portare a casa prima della scadenza elettorale europea del giugno prossimo. Ove si realizzasse questo loro obiettivo non avremo più una Costituzione repubblicana ma una Costituzione postfascista.
La forma di governo presidenziale e l’autonomia regionale non sono un male in sé ma nei fatti, mettono in discussione gli architravi della Costituzione: il ruolo e i poteri del Capo dello Stato e mortificano sempre più le prerogative dello Stato Centrale. Salta l’equilibrio dei poteri
E’ di tutta evidenza che le due proposte di riforma non si inscrivono dentro una organica e coerente visione dell’architettura dello Stato. Trattasi di due riforme figlie di uno scambio politico tra Fdi e Lega., tutto giocato all’interno dei confini nazionali, con l’obiettivo di picconare tutti i poteri costituzionali di controllo, a cominciare dalla Corte dei Conti. e daLla Ragioneria di Stato.
La Presidente del Consiglio Meloni e il Presidente del Senato La Russa si dicono convinti che autonomia regionale e premierato possano coesistere, al contrario tra le due riforme c’è una sostanziale differenza, soprattutto nella tempistica.
Il premierato, essendo una modifica costituzionale, deve fare due passaggi alle Camere, e se non avesse i numeri per approvarla, dovrebbe essere sottoposto al vaglio del referendum confermativo .
Proprio in queste ore la Presidente Meloni ha dato una forte accelerazione per la ratifica del premierato, almeno in prima lettura, da usare come fiore all’occhiello durante la campagna elettorale del prossimo giugno.
Sul premierato avremo cura di ritornare più dettagliatamente. Concentriamoci nell’analisi riguardante l’autonomia differenziata. Fortemente voluta dalla Lega, è un argomento divisivo e ha trovato la forte opposizione di chi vede in questa legge la definitiva cristallizzazione, se non l’aumento, delle disuguaglianze territoriali che già vivono nel Paese.
In particolare nel Sud e nelle Isole la società civile, accademici e persino Presidenti di Regioni hanno fatto sentire la loro contrarietà al Ddl preoccupati di come potessero essere garantite le risorse e i servizi, già carenti in queste realtà.
Tuttavia solo una minoranza di cittadini ha percepito la portata della riforma che si sta discutendo nelle aule parlamentari, anche perché materia ostica e difficile da spiegare in modo semplice.
L’autonomia regionale è una bomba ad orologeria che, innescata più di vent’anni fa con la riforma del Titolo V, sta per esplodere facendo a pezzi la Repubblica così come la conosciamo ora.
L’Italia oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse esclusivo per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. Vive in solitudine e dà una scarsa attenzione ai grandi temi collettivi; gli italiani assistono passivamente alla progressiva privatizzazione del SSN, al declino della scuola pubblica, ad una offerta politica di breve periodo. Moltissimi i nostri concittadini che non hanno più fiducia nella capacità della classe politica, peraltro mediocre, di cambiare in meglio il Paese.
Il DDL sull’autonomia differenziata, presentata dall’on Calderoli ( che definì una porcata la sua legge elettorale) e approvata dal Senato nel febbraio scorso, è una legge procedurale per attuare la riforma del Titolo V della Costituzione che nel 2001 ha modificato i rapporti tra Stato centrale e Enti periferici.
Per dare una lettura corretta dell’autonomia regionale dobbiamo partire dall’art 5 della Costituzione che indica come lo Stato debba promuovere le autonomie ed il decentramento, ma ad una condizione: che si garantisca “l’unità e l’indivisibilità della Repubblica”.
L’on. Calderoli naturalmente gioca sulla formulazione dell’art.5 che può sembrare apparentemente ambigua, perché prevede varie articolazioni territoriali all’interno di una Repubblica , una e indivisibile. L’onorevole fa una lettura parziale, tralasciando la seconda parte della norma. Lo stesso stratagemma usato dalla Meloni con l’art. 1 della Costituzione. Legge la prima parte e tralascia la seconda: “la sovranità appartiene al popolo,…… che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Dire mezze bugie è una caratteristica strutturale della destra.
In questo contesto merita ricordare che nel 2014-2015, dopo le fiammate propagandistiche, Veneto e Lombardia decisero di proporre le proprie richieste di differenziazione convocando appositi referendum popolari consultivi ( che si tennero poi nel 2017) , cui seguì una iniziativa dell’Emilia Romagna meno stravolgente.
L’autonomia differenziata nasce come modifica legislativa nel 2001 portando alla revisione del Titolo V della Carta. Fu proposta dal centrosinistra ed ha introdotto all’art. 117 una novità sostanziale. La norma indica diciassette materie di competenza esclusiva dello Stato (tra cui la politica estera e monetaria, la difesa, la giurisdizione, le dogane, la moneta e la tutela del risparmio, le leggi elettorali, le norme generali sull’istruzione ecc.) per poi lasciare tutte le altre materie alla legislazione delle singole regioni.
Se nel 2001 la scellerata scelta del centro sinistra è stata efficacemente definita “un monumento di insipienza politica e giuridica” (Giovanni Ferrara), sarà quasi impossibile trovare oggi le parole adatte per definire l’attuazione di una disposizione che rischia di cancellare ogni residua traccia di razionalità, che ancora tiene assieme le nostre sfilacciate istituzioni.
Nel 2018 l’on Gentiloni Presidente del Consiglio, a tre giorni dall’elezioni politiche, firmò una pre-intesa relativa alle competenze da attribuire a Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, senza aver fatto alcuna analisi delle reali necessità territoriali, si trattò di una sorta di “lista della spesa” tra tutte le 23 materie indicate dalla legge..
Le scelte degli Enti territoriali erano sorrette dalla sola volontà di impossessarsi quanto più potere legislativo possibile. Anche da questo atteggiamento nascono le perplessità di Banca d’Italia sulla effettiva opportunità di questo DDL.
Sono gli stessi dubbi che sono stati espressi dalla Commissione EU nelle sue raccomandazioni del maggio scorso: “Nel complesso la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni centrali di gestire la spesa pubblica.”
A ben vedere lo scempio che oggi si prepara con l’autonomia regionale, ha molti padri e non si identificano solo con la destra del governo Meloni.
L’obiettivo del DDL Calderoli, almeno sulla carta, è quello di adattare la gestione delle competenze alle specificità di ciascuna regione, tenendo conto delle diversità territoriali e delle esigenze locali.
L’autonomia concessa dall’art. 116 non è stata mai attuata proprio per le grandi differenze economiche e sociali tra regioni. Per questo, secondo alcuni studiosi , il DDL Calderoli potrebbe determinare conseguenze disastrose per l’intero Paese.
Il processo di autonomia regionale, che si compone di 11 articoli, segue questo percorso:
- le regioni, in base all’art. 116 della Costituzione, possono chiedere le competenze previste dall’art .117 ma sta al Parlamento decidere se e quali concedere;
- 23 sono le materie di competenza: tra queste spiccano Tutela della salute, Istruzione , Sport, Ambiente, Energia, Trasporti, Cultura, Commercio estero;
- la determinazione dei LEP che definiscono il livello minimo di servizio garantito uniformemente sul tutto il territorio nazionale;-
- creazione di una cabina di regia: organo composto da tutti i ministri competenti, presieduta dal prof. Cassese, sotto il controllo di Palazzo Chigi;
- le competenze vengono concesse sulla base di un accordo tra Stato e singola Regione, le decisioni assunte sono irreversibili e il Parlamento non può discutere il merito;
- l’accordo non può essere oggetto di referendum;
- firmata l’intesa, tutti i dettagli sul trasferimento dei poteri, verrebbero demandati a Commissioni paritetiche Stato- Regioni, fuori dal controllo parlamentare.
La scelta politica di attribuire un ruolo centrale alle Regioni è stata innescata, fin dal 1975, dal processo comunitario con l’istituzione del Fondo europeo per lo sviluppo regionale. Processo che è stato successivamente accelerato dall’istituzione della moneta unica che ha fortemente ridimensionato il potere degli Stati nazionali.
Tuttavia ora lo scenario è completamente cambiato. Nel programma della Destra la realizzazione dell’Autonomia regionale appare a chiare lettere una poderosa coalizione di interessi, politici e territoriali, che spinge perché il progetto di riforma si realizzi in tempi brevi.
La richiesta senza limiti di nuove materie solleva non poche preoccupazioni. Nel caso del Veneto, per esempio, vengono richieste tutte le competenze previste dalla norma. Quali caratteristiche della singola regione giustificano un tale trasferimento di competenze? A questa domanda non c’è stata mai risposta. A tutti va concesso tutto quello che viene chiesto senza particolare motivazioni. .
Dare corso all’autonomia differenziata, sottolinea la sociologa Chiara Saraceno,” significa ampliare una differenziazione ingiusta delle risorse educative pubbliche offerte sul territorio nazionale, non solo tra regioni, ma anche all’interno delle stesse regioni e città: nidi, scuole per l’infanzia, tempo pieno nella scuola dell’obbligo, differiscono a seconda dove si vive e cresce”.
Il rischio è che queste disuguaglianze aumenteranno a livello interregionale, tanto più se, come chiedono Veneto e Lombardia, anche la scuola diventerà di competenza territoriale. Verranno riproposte le sciagurate “classi differenziali”?
La realizzazione di un sistema scolastico modificato andrebbe ad incidere sia sul versante dell’offerta formativa sia sulle risorse a disposizione delle scuole sia soprattutto sul reclutamento, sulla formazione, sul contratto nazionale (quindi anche sulle retribuzioni) del personale scolastico, docenti in primis, sul finanziamento delle scuole paritarie.
Il nuovo art.117 della Costituzione ha introdotto un vero e proprio mutamento di prospettiva nel rapporto Regioni/Stato rispetto al passato. Prima della riforma del 2001, il testo della Costituzione indicava chiaramente le materie di competenza regionale e quelle riservate allo Stato.
Con la riforma viene indicato un elenco di materie di esclusiva competenza statale e un elenco di materie con potestà legislativa concorrente Stato-Regioni, rispetto alle quali lo Stato mantiene solo un potere d’indirizzo dell’attività legislativa.
La riforma dell’AD (autonomia differenziata) segue un cronoprogramma ben definito. Dopo l’entrata in vigore del DDL, potranno partire le trattative tra Stato e Regioni, che avranno cinque mesi per raggiungere un accordo.
Inoltre il testo chiarisce che l’assegnazione di funzioni relative ad ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, riguardanti materie legate ai diritti civili e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale, è subordinata alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP)
Si tratta della quantità e qualità minima di prestazioni di un diritto civile e sociale quali salute ambiente, istruzione ecc che tutti i cittadini devono avere nel proprio territorio. Le materie su cui la Regione può chiedere l’autonomia non potranno essere definite se prima non siano stati definiti i LEP.
La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni rappresenta una decisione politica di grandissima rilevanza, che dovrebbe essere assunta e gestita dal Parlamento. Ad essa spetta il ruolo di coniugare l’autonomia finanziaria degli Enti territoriali con la garanzia di accesso per i cittadini a prestazioni uniformi sul territorio riconosciute, indipendentemente da dove vivano. E’ opportuno ricordare che le Regioni richiedono meccanismi finanziari concordati simili a quelli in vigore per le Regioni a Statuto speciale.
Tuttavia ci duole dire che l’iniziativa del governo è fumo negli occhi perché mira solo a definire i LEP, questo però non è sufficiente, essi devono essere finanziati. Lo Stato per definire l’AD dovrà spendere molto (si dice tra gli 80-100 miliardi) e pertanto dovrà ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse. Il governo prevede invece che tutta l’operazione debba essere a costo zero, opzione impossibile da rispettare.
Realisticamente il rischio è che lo Stato perderebbe il controllo di una parte rilevante della spesa e questo potrebbe condizionare la sua capacità di fare programmazione in maniera virtuosa, che deve inoltre essere contemperata con l’esigenza di rispettare i vincoli concordati con gli organi comunitari.
Il DDL Calderoli prevede che le risorse da attribuire a ciascuna regione siano definite da una Commissione composta in modo paritario dallo Stato e dalla Regione richiedente, presieduta dal prof. Cassese, e finanziate attraverso la compartecipazione al ricavato dei tributi erariali.
Per quanto riguarda le modalità di finanziamento dei LEP una Commissione paritetica procederà “annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati”.
Secondo gli accordi, il passaggio di competenze alle Regioni di materie come le politiche del lavoro, l’istruzione, la salute, la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, avrebbe dovuto comportare anche un relativo trasferimento di risorse dallo Stato, sia per consentire l’espletamento delle funzioni sia per definire una programmazione degli investimenti.
Nel DDL il tema del finanziamento introduce la questione del “residuo fiscale”, che si richiama alle intese Stato-Regioni sottoscritte dal governo Gentiloni nel febbraio del 2018. I cittadini che pagano più tasse di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero diritto a mantenere sul territorio almeno una parte delle risorse versate al fisco. E’ un tesoretto che fa gola a tante Regioni.
Naturalmente questa opzione è in palese contrasto con quanto stabilito dall’art. 53 della Costituzione (tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva) e nel contempo è il modo per sottrarsi, contravvenendo a quanto prescritto dall’art. 119 sempre della Carta, che riafferma “il dovere di partecipare alla redistribuzione delle risorse in favore delle realtà dotate di una minore capacità fiscale” .
E’ facile comprendere che si tratti di una rivendicazione del tutto irragionevole. Nel nostro ordinamento le tasse vengono pagate in base al reddito, al patrimonio della persona, non in base al luogo di residenza. E’ in gioco l’idea stessa di cittadinanza, secondo la quale tutti i cittadini concorrono secondo le proprie possibilità alle spese della Nazione.
Se passasse questo principio, sarebbe inevitabile vedere le Regioni più ricche ulteriormente aiutate dal bilancio dello Stato per le loro nuove competenze e le Regioni più povere contentarsi delle briciole. In questo caso potremo parlare veramente di “secessione dei ricchi”
Un aspetto particolarmente delicato riguarda il chiaro tentativo della destra di svilire progressivamente l’operatività del Parlamento, tanto che il DDL prevede che una volta raggiunta l’intesa tra Stato e Regione le Camere non possano modificarla; può solo approvarla o rigettarla, senza la possibilità di pronunciarsi nel merito dell’accordo. La legge, una volta approvata con la maggioranza assoluta delle Camere, non può essere sottoposta a referendum abrogativo.
Il Parlamento, luogo di rappresentanza e della partecipazione popolare, negli anni sempre più dominato da una classe politica mediocre, si è ridotto ad “un votificio”; ormai da tempo il governo del Paese avviene quasi esclusivamente attraverso la decretazione d’urgenza, cioè attraverso decreti legge.
La maggioranza dei giuristi, preoccupata dei possibili risvolti anticostituzionali del DDL, considera necessario e indispensabile un passaggio parlamentare che deve essere esercitato senza alcun limitazione. Il Parlamento, la massima espressione democratica del Paese non può operare “sotto dettatura” o rinunciare alle sue prerogative o avere vincoli di mandato. (art. 57 della Costituzione)
Al di là dei molti dubbi che si possono nutrire sul DDL, una questione centrale è che, sebbene la Costituzione non preveda che ogni Regione possa chiedere potenzialmente le competenze per tutte le materie, ma consente solo ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, la legge Calderoli non ne tiene assolutamente conto.
Se si arrivasse alla approvazione del DDL, sarebbe in pericolo non solo l’unità del Paese, ma sarebbe stabilito per legge dello Stato la trasgressione del più alto dei valori costituzionali: quello dell’uguaglianza tra i cittadini.
Si aprirà un ampio spazio per realizzare quel processo di privatizzazione tanto caro all’on Meloni. Avrebbe fine ad esempio la Scuola pubblica, il Servizio Sanitario nazionale, il Sistema unitario delle infrastrutture e dell’Energia. Il tutto dentro un quadro di grande confusione, dato che le competenze richieste delle Regioni sarebbero comunque diverse tra di loro. L’Italia diventerebbe un Paese arlecchino nel quale sarebbe difficile individuare le politiche nazionali.
Il regionalismo differenziato, per come sono state formulate le richieste da parte delle tre regioni, e poi da altre, è un processo da fermare perché amplierebbe le disuguaglianze territoriali, concentrerebbe troppo potere nelle mani di pochi presidenti di regione e renderebbe ancor più difficile garantire i diritti civili e sociali a tutti i cittadini.
Se vogliamo contenere i rischi che comporta il DDL Calderoli, si deve aprire una stagione di confronto su un nuovo regionalismo, per tornare ai principi fondamentali.
La cosa più straordinaria è che di fronte a questa proposta l’opposizione tace o balbetta. Tace soprattutto il PD che su questa materia appare in evidente difficoltà.
L’opposizione potrebbe invece, in un confronto a tutti i livelli, cercare di dare un contributo positivo su come costruire e affermare un regionalismo “solidale” nel rispetto dei valori della Costituzione repubblicana. Una strada impervia, ma è necessario cominciare a percorrerla. Un monito espresso anche dal Presidente della Repubblica Mattarella il quale, nel suo consueto discorso di fine anno, ha ricordato che “le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese feriscono il diritto all’uguaglianza”.