Nel consueto report settimanale di Milena Gabbanelli oggi il DATAROOM propone un interessante confronto tra Recovery Plan e Piano Marshall.
Sul piano strettamente quantitativo la giornalista nota che secondo l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano il miliardo e mezzo di dollari che arrivò in Italia con il Piano Marshall ammontasse a poco più del 9% del Pil italiano medio di quegli anni. Oggi che il Prodotto interno lordo italiano del 2019 è di 1.787 miliardi, quel dato, rileva la giornalista, corrisponde a 164 miliardi di euro, non molti meno dei 206 del Recovery fund.
La leva finanziaria di quelle risorse fu essenziale per ricostruire il tessuto economico del nostro Paese all’indomani del secondo dopoguerra. Il circuito economico che ne scaturì alimentato da un’enorme scambio commerciale pari a 300 miliardi condusse l’allora ministro del Bilancio Luigi Einaudi a destinarne un quinto per attuare un programma vasto d’investimenti di cui una metà gestiti direttamente dalll’IMI per sostenere i flussi commerciali con gli USA.
Oggi la pandemia ha costretto l’Europa a mettere sul nostro piatto quasi 300 miliardi con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro: lavoro di qualità per i giovani, le donne, per il Mezzogiorno con l’obiettivo di ricostruire l’unità del Paese.
Sembra quasi che il covid sia divenuto improvvisamente il tragico mantra con cui curare i mali endemici del nostro Paese oggi miseramente avviato dentro una spirale di declino inarrestabile, insieme alla costellazione di partiti politici e parti sociali ancora ostinatamente chiusi dentro un dibattito asfittico e senza visione di futuro.
Eppure appena fuori dall’Italia è invece l’emergenza climatica, secondo un grande sondaggio realizzato per conto dell’ufficio per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, al primo posto nelle preoccupazioni per oltre il 60 % degli intervistati, sparsi in tutte le nazioni del globo.
Per effetto della pandemia il 2020 si è chiuso con una riduzione di emissioni di anidride carbonica di oltre il 6% rispetto al 2019 ma comunque inferiore al 7,6% annuo che uno studio delle Nazioni Unite indica come target minimo.
Solo negli Stati Uniti, il 2020 ha visto raddoppiare il numero di eventi che hanno causato danni superiori a 1 miliardo di dollari, con un conto totale che si avvicina pericolosamente ai 2 trilioni di dollari.
Per questi motivi risulta poco comprensibile che il dibattito odierno non sappia coniugare il tema del Recovery Plan con gli oltre 662 miliardi di euro all’anno necessari a livello di Ue stimati dalla Commissione europea per conseguire gli obiettivi del Green Deal.
Anzi dato che il Parlamento europeo, ha rivisto i propri obiettivi climatici al 2030 rialzandoli nettamente (dal 40% al 55% di taglio delle emissioni al 2030, o al 60% come richiesto dal Parlamento) ne conseguirà un ulteriore e considerevole rialzo del fabbisogno finanziario.
Si può supporre fin da ora che sarà necessario disporre di una somma anche superiore ai 750 miliardi di euro del fondo NextGenerationEu (Ngeu), ogni anno.
Tali obiettivi non potranno essere raggiunti senza un ingente indirizzamento della finanza privata coerentemente all’impegno cardine assunto nell’accordo di Parigi di rendere i flussi finanziari in grado di favorire un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima.
Il sistema finanziario nel suo complesso richiederà obbligatoriamente interventi di regolamentazione dell’Ue legati alla tassonomia degli investimenti sostenibili, anche nel dare concretezza al principio del non nuocere enunciato nel Green Deal.
Compito della Commissione è quello di valutare e identificare le attività che danneggiano significativamente la sostenibilità ambientale, conformemente all’articolo 26, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (Ue) 2020/852 e come raccomandato dalla Banca centrale europea e dalla rete delle banche centrali e delle autorità di regolamentazione per l’inverdimento del sistema finanziario.
Il confronto che si sta dipanando intorno alla nascita del Governo Draghi pone in questa ottica l’urgenza non più rinviabile di comporre in modo nuovo un indirizzo pubblico nell’economia.
Se ciò è vero il Governo potrebbe destinare parte delle risorse europee alla costituzione di garanzie statali in grado di dare ossigeno ai vasti programmi di sviluppo e riorganizzazione.
Negli anni del miracolo economico, gli istituti di credito speciale e la finanza basata sulle garanzie statali soppiantò la finanza del rischio.
Proprio in questo quadro la vicenda Monte dei Paschi ex istituto di diritto pubblico ora in mano allo Stato può essere a tutti gli effetti l’occasione per ripensare l’architettura industriale dell’intero sistema creditizio.
Sono pienamente e convintamente d’accordo sulla centralità del tema “Green” nelle necessità e nelle sfide che l’umanità deve e dovrà sostenere.
A mio avviso è del tutto illusorio fare proiezioni contando sulle coscienze individuali e sulla “buona politica”.
La pandemia da Covid 19 lo sta dimostrando: le misure restrittive necessarie a contenere il contagio sono contrastate e, ove possibile, disattese in base agli interessi personali o di categoria, o di fascia anagrafica, o ancora di credo ideologico.
La leva da agire deve essere economica: produrre con impatto nocivo sull’ambiente deve diventare anti-economico; al contrario le produzioni “virtuose” vanno affiancate finanziariamente da incentivi pubblici, facilitazioni economiche.
In quest’ottica il ruolo di un ente creditizio di natura pubblica potrebbe rivestire un ruolo centrale.
Ma ovviamente per fare tutto questo serve la volontà politica di farlo, l’eliminazione di intralci burocratici, la scelta di uomini e donne dotati di preparazione, ma anche di volontà, condivisione degli obiettivi, capacità operative.
Non sono molto ottimista…